Corriere della Sera, 7 maggio 2025
Intervista a Chiara Dynys
Porterà il mare in una stanza e la stanza sarà quella di Palazzo Citterio, ovvero la Grande Brera inaugurata a Milano lo scorso 7 dicembre dopo cinquant’anni di attesa. Da domani, prima artista invitata, Chiara Dynys, mantovana (1958) trasformerà l’area Stirling della Grande Brera in un mare di luci, onde e suoni.
L’arte fu il primo amore?
«Ho fatto il Liceo a Mantova, poi Economia e commercio a Pisa – racconta —. Avevo iniziato a lavorare come modella, poi come venditrice in uno show room di design. Ero una sportiva iscritta al Coni: ho vinto un taliano juniores di salto in alto. Tuttavia, già da piccola pittavo campiture di colori disponendo i fogli per terra e facevo graffiti. Non ho frequentato l’accademia d’arte perché in famiglia volevano che avessi un lavoro sicuro. Mi piaceva anche medicina e sogno ancora di poter finanziare un ospedale in Africa. Mi piace curare, credo che l’arte sia una cura per se stessi e per gli altri. C’è qualcosa di demiurgico nell’arte e anche l’opera per Palazzo Citterio».
L’arte è un’esperienza totalizzante? Lei non ha mariti né figli?
«Mariti non parliamone, figli non ne ho avuti. In alcuni periodi della vita mi sono mancanti, ma il lavoro si è preso tutto lo spazio. Forse non ho avuto figli anche perché avevo una madre molto ingombrante. Era una donna che scriveva di cinema per le riviste e per questo motivo ho fatto anche dei film».
Come andarono gli esordi?
«Su e giù da Milano, facevo vedere il mio lavoro a Giorgio Marconi. A Saint Etienne, nel ’92, esposi per la prima volta all’estero con gradi nomi e ottenni un contratto con la storica Galerie de France. Anni dopo venne il Premio Cairo: fui la prima donna a partecipare, era la prima edizione. Pian piano non ebbi più bisogno di fare un secondo e terzo lavoro come accade a molti artisti».
Già, come fanno a mantenersi? Vasari scriveva che li attendeva una vita di stenti.
«Molti insegnano, ma è dura. Le mie opere sono tridimensionali, laboriose e ci vuole resistenza a non mollare. Rinunci a vacanze, vita privata, devi anticipare i soldi per le opere e ci sono lungaggini con i galleristi: molti, dopo un po’, desistono».
Consiglierebbe a un bambino di fare l’artista?
«No assolutamente, cercherei di dissuaderlo subito, gli consiglierei l’agricoltura. L’arte richiede troppo sacrificio e spesso diventi artista frustrato».
Lei come ce l’ha fatta?
«Mi piaceva viaggiare da sola in India e in Medio Oriente, dove mi venne l’idea di fare uno slide show chiamato Siparionel quale si alternavano fotografie scattate in luoghi economicamente agiati e altre in paesi musulmani poveri. Scoprii che era più gioiosa la gente della mamelucca Città dei morti al Cairo che quella di Zurigo».
Cosa la attrae del Medio Oriente povero?
«Quando sono stata nel campo profughi di Sabra e Shatila mi pareva il luogo dove c’era il candore della gente. Chiesi a Fatah il permesso di scattare foto e girare video: quando cercai di dare in cambio delle sovvenzioni le rifiutarono dicendo che andava bene così. Intendiamoci, c’è anche un altro lato: la donna può mai essere un capo, è una società patriarcale. La donna ha i maggiori diritti dentro casa, ma non le viene concessa una grande identità sociale».
Come ha vissuta a Sabra e Shatila?
«C’era una nuova giovinezza. Entravo negli ospedali e vedevo tanta felicità nel giocare con un giocattolo riciclato della Beirut ricca. Lì, la guerra non finisce mai, ma andrei a morire tra quella gente, ci sono persone straordinarie».
Scusi, persone straordinarie come?
«Kaleed al Assad, il custode di Palmira trucidato dall’Isis. Un uomo straordinario, con lui girai in Siria. Con i suoi nipoti, più burberi, ho fatto una mostra all’ambasciata italiana intitolata Clean your eyes. Assad pensava che le primavere arabe sarebbero durate poco. Anch’io aiutai molte persone a fuggire in Svezia».
Oggi c’è Gaza.
«È una questione che va risolta rispettando il territorio dei palestinesi. Mi piacerebbe andare a Gaza per documentare e curare».
Com’è la vita di un artista? I rapporti con galleristi, compratori...
«Oggi, le gallerie sono un po’ impossibilitate a portare avanti un artista, sebbene Michele Casamonti, ad esempio, abbia con me un atteggiamento molto propulsivo. Un tempo cercavano di darti un mercato e, time to time, ti davano dei soldi per vivere, specie se avevano l’esclusiva. Anche perché un artista deve pagare le persone dello studio, i materiali, l’affitto, le tasse, fare la spesa... Oggi i galleristi pensano che l’artista debba essere un ricco di famiglia e questa è una idea pericolosa per l’arte».
Vale anche per le artistar?
«Ormai c’è solo Cattelan con le gallerie americane, ma il mercato si sta abbassando per tutti e gli exploit sono alle spalle. Diverso il discorso per Pistoletto, Pomodoro i maestri storicizzati, che sono un investimento sicuro o in crescita, come Kounellis e Munari. Carol Rama ha iniziato a vendere a ottant’anni quando le hanno dato il Leone d’oro in Biennale».
Quanto rischiano i collezionisti?
«Se possono, comprano sul sicuro; pochi acquistano quel che piace loro indipendentemente dal mercato. I fondi di investimento non comprano artisti valutati decine di euro, investono solo su cifre enormi come se l’arte fosse un bond. Ora espongo nella mostra Le livre da Tornabuoni a Parigi, in avenue Martignon, con Parmigiani, Kiefer, Paolini...: le mie opere sono tra le meno care, adatte a veri collezionisti appassionati non investitori».
Chi sono i curatori?
«Dovrebbero essere compagni di strada, gente che sa consigliare e aggiungere significato alla tua opera. Giorgio Verzotti per me lo è stato ed anche Anna Bernardini, con la quale ho lavorato per il Fai, poi Alessandro Castiglioni, Chiara Squarcina, Gabriella Belli... Mario Merz diceva che Kahnweiler, per Picasso, era stato più di un marito»
E i critici?
«Non si può piacere a tutti. Magari anche per ragioni di amicizia o inimicizia, per questioni di appartenenze».
Che differenza c’è tra artista e creativo?
«Tutti gli artisti partono da una immagine che hanno in testa e la elaborano con il media che si sentono. Schnabel è pittore e regista. Anch’io ho iniziato con la pittura e mi sono intossicata dipingendo in un garage. Scaldavo gli elementi con cui dipingevo: pigmento, resine tossiche e altro e mi sono ammalata: sono situazioni foriere di tumori».
Per una donna è più dura affrontare il mondo dell’arte?
«È immensamente più dura perché poche donne direttrici di musei e gallerie sono solidali con le artiste. I collezionisti si fidano più degli uomini perché pensano che le donne, prima o poi, abbandoneranno il settore. Infatti, le opere delle artiste costano mediamente meno».
Artiste che hanno fatto la storia?
«Artemisia Gentileschi fa parte di un mio lavoro intitolato Sante subito. Ho amato Frida Kahlo, Eva Hesse, che si ammalò di intossicazione, la depressa Diane Arbus, recitata in un bel film da Nicole Kidman. Anche Francesca Woodman, che si suicidò a 23 anni: faceva foto eccezionali. Non tutti le conoscono e questo ci porta a capire quanto una donna viene subito dimenticata se ti assenti quindici minuti. Per questo non hai vita privata».
Perché la cultura woke è così dominante nell’arte contemporanea?
«Woke è diventata estremismo. La Arbus amava i corpi fluidi, ma era cosa diversa dal conformismo attuale. Adesso è preferibile sostenere artisti neri, Lgbtq...: l’artista italiana donna non è di moda e finisce discriminata anche se non rientra tra le categorie, diciamo, protette».
Quale città porta fortuna all’arte, oltre Milano?
«Venezia. A Palazzo Fortuny ho una esposizione permanente di libri illuminati intitolata Enlightening grimoires e a Ca’ Pesaro ho da poco chiusa la mostra Lo stile, inaugurata con la scorsa Biennale. Anche con il Fai ho una lunga esperienza perché ero molto amata da Giuseppe Panza, che mi comprò un lavoro su progetto: un cubo di luce che cambiava ogni quattro secondi e che fu esposto alla Rotonda della Besana».
A Brera, infine?
«Mi sto trovando benissimo sia con Angelo Crespi che con Chiara Rostagno: direttore e vicedirettrice mi sono stati molto vicini nell’allestimento. Vedremo il mare dentro una stanza. Mi sono ispirata a una piccola macchina barocca, ma a Brera ho costruito un teatro palladiano di onde con materiali sintetici. Ogni rullo è composto da tre onde realizzate a mano. Davanti ci si trova una battigia. Si sentono i rumori dei rulli che fanno ruotare le onde come in tempesta e le parole sono scritte con le alghe. Si chiama Once again e si vene ammessi attraversando una porta-soglia luminosa chiamata Blue gate»