La Stampa, 7 maggio 2025
L’assenteismo mina la democrazia diretta
È tempo di referendum e si pone la solita questione del “quorum”, cioè del numero minimo di votanti perché un referendum sia valido. La scarsa partecipazione è generalmente dovuta al fatto che i quesiti hanno importanza soltanto per i cittadini appartenenti a ristrette categorie. Per cui solo loro hanno voglia di recarsi ai seggi. Tutti gli altri preferiscono restarsene a casa o “andare al mare” (seguendo il perfido invito di Craxi per il referendum del 1991 sulla legge elettorale). Solo quando vengono in gioco questioni di rilevanza veramente generale (il divorzio del 1974, l’aborto del 1981 e la scala mobile del 1985) la gente accorre e il quorum sale a vette dal 79 all’87 %. L’assenteismo trasforma in un fantasma quello che è invece un importante strumento di democrazia diretta, nato per dare voce a tutti i cittadini e che –consentendo di abrogare una norma di legge– ha in sé una forza tale da scavalcare persino la volontà del Parlamento.
Sarebbe importante impegnarsi per abbassare di molto il quorum, o per eliminarlo del tutto, in modo che il referendum sia valido quale che sia il numero dei cittadini che vi partecipano, modificando l’art. 75 della Costituzione. Anche l’eliminazione totale del quorum non dovrebbe sconcertare, poiché la stessa Carta prevede già un caso di referendum per la cui validità non è necessario un numero minimo di votanti. Per l’articolo 138 le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, quando sono sottoposte a referendum, sono approvate se ottengono la maggioranza dei soli “voti validi”, principio che potrebbe essere applicato – pur tenendo conto delle differenze – anche quando si tratta di leggi ordinarie.
È vero che, con un quorum molto basso o addirittura eliminato, la decisione sui quesiti referendari resterebbe affidata alla volontà di quella minoranza di cittadini che andrà a votare. Ma la maggioranza non potrebbe lamentarsi di questa conseguenza in quanto sarebbe essa stessa ad averla provocata con il suo disinteresse per la cosa pubblica (o, usando la parola giusta, con la sua pigrizia). E chissà poi che proprio il timore che il referendum sia comunque valido, e che la decisione sia presa da una minoranza, non induca un maggior numero di cittadini ad esercitare il loro diritto di votare.
Ma veniamo all’oggi, cioè ai 5 quesiti proposti dalla CGIL per i referendum dell’ 8 e 9 giugno. Si tratta di questioni che senza dubbio interessano la generalità dei cittadini, per cui tutti dovrebbero votare. Segnaliamo in modo particolare il quesito sulla cittadinanza, che va nel senso dell’inclusione cara a Papa Francesco, e quello che riguarda la sicurezza sui posti di lavoro. Purtroppo l’Italia è ai primi posti nella graduatoria europea sugli infortuni, anche mortali. Ogni risorsa disponibile deve essere messa in campo per ridurre questa piaga, ed è il criterio cui si ispira il quesito referendario. Nella catena degli appalti (spesso teatro di regole eluse, di illegalità, di lavoro nero), il quesito vuole estendere la responsabilità del committente – ad es. una grande azienda– oggi limitata ai rischi generici, anche a quelli specifici dell’appaltatore. In questo modo il committente dovrà vigilare sulla sicurezza nei cantieri e negli appalti e le cause legali per ottenere il giusto risarcimento sarebbero semplificate. Ovviamente il quesito in esame si occupa unicamente di un singolo segmento della tematica della sicurezza sul lavoro, ma è ugualmente importante. Se non altro perché non si dica che di fronte agli infortuni ci si limita a piangere le vittime per poi dimenticarsele.
Ecco, il quesito referendario è un’occasione importante per affermare la necessità che le cose cambino. Senza concedere spazi alla rassegnazione e al disimpegno. Ricordando che le battaglie perse sono soltanto quelle cui si rinuncia in partenza.