la Repubblica, 6 maggio 2025
Gaza, denunciato un ufficiale per la morte di Hind Rajab, la bimba uccisa mentre chiedeva aiuto
A un anno e mezzo dal suo omicidio, c’è il nome di uno dei responsabili dell’assassinio di Hind Rajab, la bimba di 5 anni di Gaza, ferita durante un raid mentre fuggiva con gli zii e lasciata morire sotto lo sguardo del mondo. Gli audio delle telefonate in cui disperatamente chiede aiuto, resi noti un anno fa da Repubblica, sono diventati simbolo e prova dei crimini di guerra commessi nella Striscia.
Nel giorno in cui la bimba avrebbe compiuto sette anni, la fondazione che porta il suo nome ha annunciato di aver identificato e denunciato alla Corte penale internazionale il comandante del battaglione responsabile di quell’azione. Si tratta del luogotenente Beni Aharon, all’epoca comandante della brigata 401 dell’Idf. È stato lui, si sostiene nella denuncia, a ordinare di colpire l’auto su cui Hind, gli zii e il cuginetto stavano scappando dopo l’ennesimo ordine di evacuazione di Gaza City. Sempre sotto il suo comando, i tank israeliani hanno colpito l’auto della Mezzaluna rossa palestinese e i paramedici che hanno tentato di soccorrerla.
Ai colpi che hanno ucciso i parenti, Hind era incredibilmente sopravvissuta, insieme a Layan, una cugina più grande. È stata lei a avvertire per prima la Mezzaluna rossa, poi sessantadue colpi, sparati uno dopo l’altro, uccidono anche lei. Hind, Hannud come la chiamava la sua mamma, sopravvive. È nascosta sotto i sedili, circondata dai cadaveri dei parenti. Terrorizzata, risponde quando dalla Mezzaluna rossa richiamano. “Ho paura, per favore vieni! Per favore chiama qualcuno che venga a prendermi”.
Per tre ore, i paramedici erano stati con lei al telefono, tentando di rincuorarla mentre lei chiedeva sempre più impaurita perché la lasciassero sola, perché nessuno la andasse a aiutare. “Per favore, venite a prendermi”, supplica l’operatrice che le chiede se il carro armato è vicino, se i soldati sono scesi. “Si stanno avvicinando, sparano”, sussurra la bimba, mentre dal centro emergenze le ripetono più e più volte “non interrompere la telefonata, stai con me”. L’operazione di soccorso parte, un’ambulanza tenta di avvicinarsi. L’ultima chiamata di Hind è con la mamma, “vedo l’ambulanza”. Poi la linea cade, il telefono si ammutolisce.
La verità si scoprirà solo dieci giorni dopo, quando l’Idf lascia l’area. Il corpo di Hind verrà trovato insieme a quello dei parenti, raggomitolata dietro il sedile del guidatore, accanto alla cugina. Poco lontano, la carcassa dell’ambulanza, con dentro quel che restava dei due paramedici.
L’Idf nega ogni responsabilità, sostiene che non ci fossero loro mezzi in quell’area. Versione smentita dalle immagini satellitari, dall’analisi dei proiettili, da audio esclusivi e testimonianze dirette che Repubblica già un anno fa ha pubblicato.
Nonostante il perdurante assedio, per un anno, avvocati e attivisti della fondazione Hind Rajab hanno indagato dentro e fuori dalla Striscia e hanno individuato i militari che operavano nell’area e il loro comandante, il luogotenente Beni Aharon. “Possiamo confermare – annunciano con una nota – che anche il battaglione che operava sotto il suo comando nel quartiere di Tel al-Hawa il 29 gennaio 2024 è stato interamente identificato”. A breve partiranno le denunce anche per i soldati. “Quegli uomini non sono più sconosciuti. Il silenzio non li protegge più”.
All’ufficio del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan, i legali della fondazione hanno chiesto di emettere un mandato d’arresto per il comandante Aharon e “stiamo preparando documenti anche contro gli ufficiali del battaglione. Verranno denunciati presso corti nazionali qualificate secondo i principi di giurisdizione universale”. E la battaglia perché Hind, la sua famiglia, i paramedici che inutilmente hanno cercato di soccorrere la bambina proseguirà.
“Procederemo contro ogni ufficiale coinvolto: chi ha dato gli ordini, chi ha sparato, chi li ha coperti, chi ha lasciato che accadesse”, è la promessa della fondazione. “Oggi Hind avrebbe spento sette candeline, invece stiamo dando un nome al suo assassino – ha detto il presidente Dyab Abou Jahjah. “Questo è solo l’inizio. Risaliremo a ogni nome, ogni anello della catena, per giustizia e per verità”.