corriere.it, 5 maggio 2025
Manolo, il mago dell’arrampicata senza corda: «Avevo paura del vuoto. Scalando con me Mauro Corona si spaventò»
Occhi di ghiaccio verso il cielo, braccia e gambe in tensione a sfidare due avversari ancestrali dell’uomo, la nuda roccia e la forza di gravità. Maurizio Zanolla, per tutti Manolo, bellunese di Feltre, è stato tra i pionieri dell’arrampicata libera in Italia e ha conquistato pareti impossibili slegato, senza corda. Negli anni Settanta, con la grazia dei movimenti tra tiri di roccia e creste si è guadagnato il soprannome “il mago” e il suo incantesimo dura ancora oggi: di anni ne ha 67 anni e va ancora in montagna, anche se ha smesso di sfidare gli elementi. Il 30 aprile ha ricevuto il premio della Società alpinistica tridentina per la sua carriera.
Manolo, lei è una specie di rockstar della montagna. Appassionati di tutte le età sentono il suo nome e sgranano gli occhi.
«Sono diventato popolare prima dell’era di internet, forse sono un dinosauro rimasto nell’immaginario: essere appesi nel vuoto cattura l’immaginazione. L’arrampicata mi ha accompagnato per 50 anni e sono stato in prima fila tra quelli che hanno cambiato le cose, passando dalla fase alpinistica all’arrampicata sportiva che poi è stata portata anche alle Olimpiadi. Ho contribuito alla fase esplorativa, nella difficoltà, nel cercare vie nuove. E poi quando sembrava che a 40 anni uno dovesse buttare le scarpe e i chiodi ho dimostrato che l’arrampicata si può fare fino a un’ età avanzata».
Arrampica ancora?
«Certo, con precauzioni, rallentando, non come una volta. Ad alto livello è difficile: la gravità è implacabile e crudele; serve tantissimo allenamento. Bisogna anche accontentarsi: se uno non punta al grado e alla difficoltà uno trova sempre tiri di corda per divertirsi al proprio livello».
Parte del fascino della disciplina non sta nel superare i propri limiti?
«Arrampicare ti impegna mentalmente, ti porta in luoghi straordinari. Quello che dà il sale è avvicinarsi sempre un pochino di più al proprio limite e giocherellare in un equilibrio in cui non tutto è scontato e non tutto è sicuro. E a volte c’è il dubbio di non farcela».
In gioco c’è la vita.
«Ti confronti con gli imprevisti e con l’insuccesso. Di fronte a una difficoltà c’è la possibilità di rinunciare: gli alpinisti provano a forzare a risolvere i problemi, a volte devi lottare per tornare indietro. Ma non l’ha ordinato il medico di stare sulla parete, devi mettere in preventivo che si può cadere. Non ci sono reti, materassi, vie di fuga, alle volte non puoi neppure fermarti. La pietra si può staccare, il tempo può cambiare, noi stessi possiamo cambiare durante una scalata».
Non è per tutti.
«Dipende da come si fa, in montagna ci possono andare tutti, dal livello turistico alle scalate, ma ci vuole preparazione. Basta una stupidaggine ed è l’ultima cosa che fai, anche in un trekking. Poi, più si va in montagna più si alza la possibilità che succeda qualcosa e bisogna triplicare prudenza, istinto, senso del pericolo, evitando di farsi condizionare dagli altri. Io sono stato fortunato, ho fatto degli errori ma poteva andare peggio. Non sarei qui a raccontare nulla, altrimenti. Bastano una valutazione sbagliata nel percorso, un nodo fatto male, il meteo preso con leggerezza, una scivolata. Ho sempre avuto paura: mi ha accompagnato in modo sano».
Paura, lei?
«Non sembra perché sono quello che ha scalato con pochi chiodi. Ma la prima volta che sono andato in montagna il vuoto mi ha colpito: non hai gradino, scala, qualcosa di solido, non hai garanzie, sei appeso alle mani, ai piedi, gli appigli sono piccoli. Avevo una paura costante del vuoto e volevo controllarla. Mi sono sempre sentito piccolo di fronte alla montagna e questo mi ha salvato. Ma non saprò mai quanto sottile fosse il filo a cui erano appesi certi ritorni. Ho cominciato a scalare sui monti del Sole, a Feltre, un solo bivacco, niente sentieri segnati e nessuno che sapesse dove eravamo o potesse trovarci, niente elicottero dei soccorsi».
Come ha superato la paura?
«Ho capito che non potevo eliminarla e ho trasformato il vuoto in un punto di appoggio: era diventato una presenza in cui mi sentivo a mio agio. Ero dove dovevo essere, frequentavo le montagne slegato con facilità, non sentivo più il vuoto come nemico. Poi quando sei giovane l’incoscienza ti aiuta».
Senza limiti, come diceva la pubblicità degli orologi in cui appariva.
«Negli anni Novanta sono diventato celebre per lo spot degli orologi Sector in tv. Mi chiesero se volevo indossare un orologio e scalare, mi davano del denaro. Ho detto: “Va bene, dimezzate il compenso ma lasciatemi fare come voglio io”. Non volevo limiti e vincoli, né essere costretto a fare per uno spot imprese che potessero essere troppo rischiose».
Lei è amico da sempre di Mauro Corona. Un’impresa insieme?
«Un giorno gli ho detto: Mauro, siamo sempre qui a Erto, andiamo in America. L’ho convinto e siamo partiti nell’87 per la California. Eravamo i primi italiani in cordata che aveva tentato il Nose (una parete di 900 metri a strapiombo, a Yosemite, ndr) in giornata: ce l’abbiamo fatta in otto ore, senza informazioni, con una corda sottile scelta per viaggiare leggeri anche se era vietata, e senz’acqua. Eravamo dei fuorilegge, ma è stata una delle esperienze più belle. Siamo stati anche nel deserto del Mojave. Una volta abbiamo arrampicato insieme in una via in cui non mettevo molti chiodi, Mauro ha fatto un gran volo e gli è passata un po’ la voglia di scalare. Si era spaventato (ride, ndr)».
Oggi la montagna lotta con il sovraffollamento: si discute su accessibilità ed eccessi, dai sorvoli con il jet alle ostriche servite nei rifugi.
«Prima eravamo in dieci montanari, ora siamo tanti. La montagna di oggi mi spaventa, le cime sono soffocate da quello che abbiamo costruito attorno. Non sono più luoghi remoti. La gente vuole evadere dalle città ma vuole ritrovare fuori le comodità che ha in città, e così ogni luogo diventa una riproduzione. Mi preoccupano di più i cambiamenti climatici perché dalle montagne scende l’acqua che ci rende vivi e sono posti con una sacralità più grande di un semplice parco divertimenti. La montagna è esempio di difficoltà e di fatica nel raggiungerla e capirla, con le proprie mani e possibilità, mi piace ricordarla così. Spero che non diventi una cartolina. Forse l’unica soluzione è l’educazione a rispettarla».
L’impresa che le è rimasta dentro?
«Tante, non so nemmeno contare quante vie ho fatto, quante cime, con quali difficoltà. Il solo camminare in montagna per conoscerla dà sensazioni intense. Non ho mai ho frequentato le montagne per conquistarle o per mettere una firma. Se fossi vissuto in città chissà che strada avrei preso».
Oggi vive in Primiero, vicino al bosco. La fermano ancora per strada?
«Non so come facciano a riconoscermi. Addirittura una volta in cabinovia avevo maschera e occhiali da sci e mi riconobbero per la voce. Eppure io non vado in televisione come Mauro (Corona,ndr). Rilascio un’intervista e poco dopo un amico me la gira dai giornali del Vietnam... Ma io non guardo internet, ho i computer che non funzionano, non ho i social, sono scollegato e mi fa piacere; non ho nostalgia delle mie imprese, non sono dipendente dall’adrenalina, non mi sono mai fatto travolgere dalla passione per la scalata. Oggi non riesco neppure a guardare qualcuno che scala slegato: figuriamoci io stesso slegato… è un’altra vita».
Ai suoi figli ha insegnato ad arrampicare?
«Ai miei figli ho insegnato a scalare, ma non ha mai attecchito in loro la passione. Una volta con mio figlio abbiamo fatto cinque o sei tiri di parete. Alla fine a me e a mia moglie ha detto: “Siete due matti”».