La Stampa, 5 maggio 2025
Oltre il confine di Eboli
Cristo si è fermato a Eboli è un cardine della letteratura italiana ed europea. È la scoperta di una diversa civiltà, un «viaggio al principio del tempo», il racconto di un popolo colonizzato fatto da chi, venuto dalla stirpe dei colonizzatori, si spoglia del proprio privilegio ricevendone in cambio una lingua nuova. È un romanzo, un documento, un resoconto, un memoriale, un libro antichissimo sbocciato nel cuore della modernità. Ed è un’evocazione, un discorso corale, un ponte tra mondi non riconciliati. Nessun lettore può inoltrarsi nei suoi capitoli e restare indifferente. Ed è, questo libro così umano, anche un problema che non siamo riusciti a risolvere.
Quando ero un ragazzo, e vivevo a Bari, i lettori di Carlo Levi con cui ero in contatto si dividevano in due categorie. C’erano quelli che si sentivano riscattati da Cristo si è fermato a Eboli perché aveva reso centrale, sul piano letterario, la civiltà contadina del Mezzogiorno. E poi c’erano quelli che, pur riconoscendo il valore del libro, gli imputavano la responsabilità di aver diffuso l’idea di un Meridione sprofondato nell’arretratezza.
Alla «vergogna nazionale» di cui parlò Palmiro Togliatti visitando Matera nel 1948 aveva insomma aperto retoricamente la strada proprio Levi, dicevano i suoi detrattori. Il Cristo era ambientato ad Aliano (trasformato in Gagliano per esigenze poetiche), ma la sua forza espressiva era tale da rendere la parte rappresentativa del tutto. Negli anni ’80 del Novecento – l’epoca in cui, da ragazzo, dovevo scegliere se guardare a Levi con sospetto o gratitudine – diverse zone della Basilicata e della Puglia (le due regioni, seppure diverse, venivano reputate sorelle) facevano ormai parte della piena modernità italiana, ma anche cercando tra quelli che avevano fatto il salto sociale era difficile trovare un ingegnere, un medico, un professore universitario, un principe del foro, un imprenditore di successo che non fosse figlio o nipote di contadini.
Il mondo raccontato da Carlo Levi era ancora molto vivo nella memoria della gente. Ricordo primari d’ospedale discettare di scienza medica, rischiarati dai lumi di Diderot e Voltaire, ma se un paziente chiedeva con troppa insistenza il giorno esatto in cui sarebbe guarito, allora quei medici cambiavano registro, e rispondevano con ironia: pescrille e pescruflo. («Crai è domani, e sempre», scrive Carlo Levi a proposito del modo in cui i contadini di Gagliano percepiscono il tempo, ma il giorno dopo domani è pescrai e il giorno dopo ancora è pescrille; poi viene pescruflo, e poi maruflo e maruflone; ed il settimo giorno è maruflicchio.
Ma questa esattezza di termini ha più che altro un valore di ironia. Queste parole non si usano tanto per indicare questo o quel giorno, ma piuttosto tutte insieme come un elenco, e il loro stesso suono è grottesco: sono come una riprova della inutilità di voler distinguere nelle eterne nebbie del crai. Nessuno può sapere con troppa precisione quando guarirà (o morirà) un malato. Un medico che abbia frequentato la civiltà contadina avrà speranze di evitare le trappole dello scientismo più sfrenato, l’altra faccia della superstizione.
Ho avuto un’educazione piccolo borghese, slanciata verso la modernità: liceo scientifico, università, collettivi studenteschi, concerti rock, mostre d’arte, cineforum. I miei nonni materni venivano tuttavia da lontano, erano coltivatori diretti, lavoravano la terra in microscopici fondi del sud barese. I loro padri erano stati braccianti, tra i padri dei loro padri c’erano i «cafoni all’inferno» di cui scrisse Tommaso Fiore quando riprese la leggenda del bracciante del Tavoliere il quale, una volta deceduto, fu spedito all’Inferno dove trovò condizioni migliori di quelle sperimentate nel latifondo. I giorni feriali frequentavo l’università. Il venerdì andavo al cinema. Il sabato andavo ad ascoltare Arto Lindsay (a Bari, in quel periodo, suonavano con regolarità Laurie Anderson, Robert Fripp, Roberto Gil, il meglio dell’avanguardia contemporanea). Provavo a immergermi nella cultura del mio tempo. La domenica mattina, però, andavo a trovare i nonni materni nell’entroterra e così piombavo, istantaneamente, in un’altra dimensione. Per conoscere le ultime novità musicali bastava recarsi in un negozio di dischi d’importazione, per i libri c’erano le librerie, le biblioteche.
Per accedere al tipo di conoscenza di cui erano depositari i nonni la porta era più stretta. Ho insomma avuto il privilegio di conoscere la civiltà contadina. L’ho frequentata gli ultimi anni durante i quali i suoi rappresentanti sono stati vivi, attivi, impegnati a difendere spicchi sempre più ridotti di un mondo che è andato poi distrutto in via definitiva. Non ne facevo parte, ne sono stato accolto. Quando poi ho letto Carlo Levi non ho trovato traccia d’esotismo nelle sue pagine, e non mi sono risentito. Oggi qualcuno accuserebbe forse Levi di appropriazione culturale, e non sarebbe più lontano dal dire una cosa esatta. Ho avuto sempre un tuffo al cuore leggendo il Cristo, mi sono sentito riconosciuto, confortato, persino consolato. Ho constatato ogni volta con quanta cura, precisione, capacità di scavo (quindi di ascolto) Carlo Levi avesse affrontato una civiltà a lui aliena.
In seguito, lo stesso Sud avrebbe relegato in modo sciagurato quella cultura nel folkore quando si sarebbe dato il compito di rappresentarla (al «cafone» si andava sostituendo il «cozzalo», il termine dispregiativo con cui nei contesti metropolitani venivano qualificati i contadini, considerati ormai dei rozzi semianalfabeti senza più un ruolo nella nuova società; tanto che quel termine, «cozzalo», indicherà poi in modo generico chi in città, contadino o meno, si comporterà in modo goffo, inadeguato), e l’avrebbe condannata alla dismissione se non all’oblio quando si sarebbe trattato di ragionarne politicamente.
Tra i lettori di Levi ero tra quelli che si sentivano risarciti, non danneggiati, dalla sua opera. Eppure il tema del «risarcimento» è fuorviante. Cristo si è fermato a Eboli non è un libro destinato a chi, nato nel Mezzogiorno, senta il bisogno di sentirsi nobilitato nelle proprie origini. È forse più utile a chi quel Sud lo conosce meno. «Chi non capisce il sud non capisce niente non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa e forse del mondo», scriveva il sociologo Franco Chiarello affrontando l’opera di Franco Cassano. Ma non si tratta nemmeno solo di far conoscere la «luna dei Borboni» al resto del paese. Quello di Levi non è – mi sembra anche più chiaro oggi – un libro su un’Italia da migliorare sottraendo al degrado certe sue pur affascinanti aree geografiche, ma un’opera sapienziale sul costruire l’Italia (e l’Europa) anche attraverso la civiltà di quei luoghi remoti, e dunque, allo stato attuale, è un libro sul paese mancato, sul continente mancato.