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 2025  maggio 04 Domenica calendario

Enrico Ruggeri: “Nella musica la destra è aperta, la sinistra no. Quanti colleghi democristiani...”

Gli strumenti in un angolo, appoggiati alle pareti, osservano un inedito silenzio. Nascosto in un’insenatura urbana della periferia est di Milano, lo studio di Enrico Ruggeri se ne sta lì, nella quiete di un primo pomeriggio come tanti. In pausa. Ma è come se la musica continuasse a girare attorno alle cose, tra mixer, microfoni, casse, fogli sparsi, appunti. Fuori invece, una sigaretta gli arrochisce la voce, aggiungendo densità a ciò che è pronto a raccontare. Ora, che ha da poco strapazzato dal vivo i Magazzini Generali ed è uscito col disco La caverna di Platone, l’ultimo passo di un percorso di cui, dice naturalmente, «sono molto orgoglioso».
Di cosa in particolare va fiero?
«Ho sempre fatto quello che mi piaceva. Ho inciso tanti dischi, puntando sulle canzoni migliori che avevo. Non quelle che avrebbero potuto passare in radio o piacere a tutti, perché lì entrano in gioco congiunzioni astrali che a volte si verificano e a volte no. A contare, per me, è quello che produci e che lasci».
Sente che ciò che ha lasciato è riconosciuto dalla gente?
«Sono tempi veloci, la gente è distratta e magari ci sono persone che non si ricordano più di te perché non ti hanno visto a Sanremo. Ma chi deve saperlo, lo sa. E di meriti me ne riconosce. Anche se fin dal primo disco avevo capito che non sarei stato uno da San Siro ma che sarei durato per molto tempo».
E perché?
«Perché non avevo le caratteristiche per essere il capo popolo che fa 80 mila paganti. Non ho quel dna, con tutto il rispetto e un pizzico di invidia per chi ce l’ha. I successi sono arrivati per gradi ed è stata una cosa buona. Quelli immediati sono i più scivolosi».
«Ma Milano c’è sempre. Nelle mie canzoni ho parlato poche volte di paesaggi, forse Il mare d’inverno è quella più paesaggistica. Ho raccontato molto di persone e quindi Milano è un punto di osservazione più interessante che so, del Grand Canyon. C’è chi va alle Maldive per scrivere un disco, io preferisco un bar».
Però nella canzone Il cielo di Milano ne fa un ritratto spietato.
«Perché oggi Milano mette gomito a gomito il barbone e il miliardario, pur rimanendo una città molto accogliente con chi lavora. Ho un figlio di 19 anni e quando di notte lo sento rincasare provo un sospiro di sollievo. Certe volte mi racconta ciò che accade in certi locali. C’è un clima di violenza che non avevo mai visto, si percepisce proprio».
Ma la riconosce ancora come la “sua” Milano?
«Ma sì. In questa città ho vissuto gli anni di piombo, l’arrivo dell’eroina, dell’Aids, le Brigate rosse. Anche momenti in cui non potevi andare in centro perché c’erano manifestazioni non certo pacifiche. Io di Milano mi prendo il meglio, sono un privilegiato. E poi dico sempre, meglio un monolocale qui che una villa sulle colline. Magari anche posti meravigliosi, dove però di notte non riesco ad addormentarmi perché mi manca il tram, il casino, una sirena che passa».
Anche La bambina di Gorla è un ritratto milanese, più familiare.
«Sì, perché mia madre insegnava tre giorni a settimana in una scuola di Gorla, il giovedì, venerdì e sabato in un’altra scuola. Un venerdì del 1944 cade una bomba, muoiono i bambini e le sue colleghe. Lei si salva solo perché quel giorno non è lì. È strano che l’abbia scritta 50 anni dopo, perché da bambino ne sentivo parlare: una storia che mette in luce un altro aspetto dell’americano liberatore».
Come si è evoluta la sua scrittura negli anni?
«Faccio un mestiere che ti dà l’illusione di essere sempre giovane, ma credo di avere fatto le cose migliori negli ultimi quattro o cinque album».
Dopo aver prodotto dei capolavori, però.
«Ma andavano bene per quel periodo. La gente mi ferma per Il mare d’inverno: il ritornello arriva dopo due minuti, cioè alla fine di un pezzo di oggi. Per cui ora non sarebbe più lo stesso, se si andasse in una radio a proporre La guerra di Piero, La cura o La donna cannone te le spegnerebbero a metà canzone».
Di lei si può dire tutto ma non che teme di esporsi.
«Molti colleghi sono terrorizzati dai social, per cui dicono che una cosa è bianca ma anche verde, rossa e gialla. Sono democristiani degli anni Duemila e venti. Scrivono no alla fame, no alla guerra. Grazie tante. Certo, non fa piacere quando arrivano in cinquanta sul tuo profilo per mandarti a quel paese, però è il gioco delle parti. Se dici come ho fatto io di non credere a una parola della narrazione fatta ai tempi del Covid, una cacca la pesti. Sono stato il primo, poi però piano piano in molti sono venuti a pestarla insieme a me».
È stufo di rispondere alla domanda: “Lei è di destra?”
«C’è da sottolineare un fattore storico. Nella musica dico, non nella vita: la destra è molto aperta e tollerante, la sinistra no. Nel mio ultimo album si parla di Gaza, di Europa, e non mi sembra di tenere posizioni filogovernative. Ho un po’ orrore di quelli che hanno un partito di riferimento. Io ho scritto un pezzo nel ’91 che si chiamava Trans, quando Lgbtq era un codice fiscale. Per cui respingo al mittente questa cosa».
Ogni tanto ritira fuori una foto di quel concerto al liceo Berchet con i suoi Champagne Molotov.
«Ah, quello fu un momento epico per me, avevo 16 o 17 anni. Il Berchet, il mio liceo, ci aveva concesso la palestra, abbiamo oscurato i vetri, portato le lampade da casa. Volevamo suonare più che diventare qualcuno, e credo sia stata la mia fortuna. Perché non presi parte alla follia politica degli anni Settanta, non mi sono drogato. Poi quando vidi Emerson, Lake & Palmer al Vigorelli suonare Aquatarkus rimasi folgorato. Pensai: “Se è così bello stare qui a sentirli, figuriamoci come dev’essere stare sul palco”. E quello divenne il mio obiettivo».
È stato per anni fuori dal giro del premio Tenco, fino al riconoscimento ricevuto nel 2021. È una cosa che l’ha ferita?
«C’ero stato come ospite negli anni Ottanta. E infatti una soddisfazione che mi sono tolto sul palco è stata dire: “Ragazzi, magari starò un po’ di più perché in tutti questi anni in cui non m’avete invitato ne sono successe di cose, e ho un po’ di canzoni da farvi sentire. Ai tempi si indicavano tra i cantautori sempre gli stessi nomi e io non ero mai considerato in quell’area lì, per tanti motivi. Ci rimani male? Sì. Ma quando sono tornato è stato un piacere».
Qualcuno potrebbe dire che ha scritto troppe canzoni e che forse...
«Ha ragione. Più che scritte, però, ne ho pubblicate troppe. Ho peccato di super entusiasmo. Ho fatto 40 album, di cui tre dal vivo. C’è gente acclamatissima, più vecchia di me, che ne ha fatti al massimo una quindicina e questo probabilmente ne ha impreziosito il catalogo».
Da tifoso, una battuta sull’Inter non può mancare.
«Se parla della squadra, comunque andrà dico che quest’anno mi sono divertito. È stata una bellissima avventura. Se intende lo stadio, io lo terrei e lo farei bello. È un monumento, San Siro».