la Repubblica, 4 maggio 2025
Mauro Corona: “Vado in tv per vanità ma ora stop, anche con il vino”
Un Mauro Corona molto diverso dal personaggio, anche televisivo, al quale siamo abituati: è il ritratto che appare nel documentario La mia vita finché capita, di Niccolò Maria Pagani, presentato al Trento Film Festival. Qui lo scrittore fa i conti col passato, con il dolore di figlio e le domande di padre. Non più provocatore ma fragile, tra ricordi e paure, nella sua tana in paese o nei boschi. L’identico sguardo dell’ultimo libro, Le altalene (Mondadori).
Corona, perché ha permesso alla macchina da presa di scavare così nel profondo?
«Perché io non sono quello che ho recitato. Volevo che i miei figli potessero finalmente conoscere il loro papà, dal vero. Sono pieno di dubbi, sono timido e non voglio rischiare di morire frainteso. Ho quasi 75 anni, non c’è più tempo da perdere e non c’è quasi più tempo per chiedere scusa».
Il confronto col passato è impietoso.
«La memoria è dolore. A volte ripenso al giorno in cui mia madre saltò su un camioncino rosso per andarsene via, e fuggire dalle violenze di mio padre. Se esistesse una sostanza per cancellare i ricordi, me la farei iniettare. Avrei desiderio di dormire come un gatto».
Da quel passato risuonano anche le voci dei morti del Vajont.
«Mi fanno soffrire, perché vennero private del futuro. Duemila anime, di cui 487 bambini, in un istante. Persone che avrebbero amato e giocato, che avrebbero vissuto. Alcune le conoscevo, Vanda, Lucia, tante erano degli anni Cinquanta come me. Mi pesa non averle viste crescere. A volte mi vengono a visitare: io cammino nel paese degli invisibili. E sarebbe bastato evacuare Longarone, Erto… Li hanno ammazzati».
Qual è il suo rapporto con la vecchiaia?
«Comincio a vedere la curva della strada. Prima di cominciare le riprese, avevo paura che la gente dicesse: “Ma questo chi si crede di essere? Ancora Mauro Corona?” Poi ho capito che avevo necessità di pacificarmi con me stesso».
Non teme che le apparizioni in tv le facciano un danno?
«Avevo deciso di andare in televisione un po’ per vanità, anche se fortunatamente sta scemando, e un po’ per dar voce a chi non ne aveva. Le faccio un esempio: dopo che ne ho tanto parlato in tv, hanno riaperto l’ospedale di Misurina dove si curano i bambini con la mucoviscidosi, malattia polmonare gravissima. Però è vero, forse è venuta l’ora di smettere. Il dolore per le malattie delle persone che amo mi ha tolto ogni vanità, mi ha scorticato».
Forse, nel suo caso, in tv basterebbe limitarsi a parlare di boschi, alberi e libri, non crede?
«Ma è proprio quello che immaginavo si volesse da me, però la televisione non funziona così».
Ci dica del suo paese, Erto. Nel documentario appare come un luogo di pietra.
«Stava crollando tutto, e molti di noi pensavano che nessuno da fuori dovesse intervenire. Invece è successo: c’è chi ha acquistato qualche rudere per riportarlo in vita. Così ho visto riaccendersi il fuoco nei camini, e la cosa mi ha fatto piacere».
Qual è il suo metodo di lavoro?
«La scrittura e la scultura scendono dal braccio lentamente, hanno bisogno di una loro precisa andatura. Per questo, non riuscirei mai a scrivere al computer, mi servono la penna e il quaderno. Nei manoscritti non vado a capo, ho orrore del vuoto, però sono ordinatissimo».
Nel film c’è un momento molto emozionante, quando lei ricorda Mario Rigoni Stern.
«Mario era quasi in punto di morte, e la moglie Anna provò a consolarlo parlandogli del suo ultimo libro appena stampato. Mario la guardò e disse: “Xe tuto gnente”, è tutto niente. Pessoa ha scritto che la ricchezza è un metallo, la gloria un’eco e l’amore un’ombra. Quando lasciamo questo mondo, il niente è ciò che portiamo con noi. Ma non è niente quello che invece è stato. Il percorso compiuto, quello vale».
Corona, come va col vino?
«Mi ha distrutto. Da bambini ci facevano bere perché diventassimo uomini, ci davano il Raboso, il vino dei poveri. Io ho bevuto per timidezza, per riuscire a cantare e per non avere paura delle ragazze. Da tre mesi, però, non tocco il bicchiere, voglio riavere la patente che mi hanno tolto, ho bisogno dell’automobile per andare in paese, dal ferramenta o in banca, non posso sempre dipendere dagli altri».
Lei scala ancora?
«Quasi ogni giorno, e anche meglio di quand’ero giovane. Ho imparato che gli ostacoli non si saltano ma si aggirano».
Cosa significa fare i conti con sé stessi?
«La vita è breve come un sogno e non bisogna sprecarla. Dobbiamo chiederci: cosa amiamo veramente fare? Un uomo libero dev’essere anche un po’ egoista, in senso buono».