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 2025  maggio 04 Domenica calendario

Bobby Cannavale: “Porto al cinema un grande padre-coraggio, sogno di lavorare con Sorrentino”

Un padre-coraggio che si mette contro tutti pur di garantire al figlio autistico delle giornate condivise, libere, piene di vita. È Bobby Cannavale nella commedia on the road In viaggio con mio figlio, in questi giorni nelle sale. Affiancato da Robert De Niro nei panni di suo padre, dalla compagna Rose Byrne in quelli della sua ex moglie e da un cast che va da Whoopi Goldberg a Vera Farmiga, porta sullo schermo la complessità emotiva di un genitore che per il figlio farebbe – e fa – qualsiasi cosa. Se qui interpreta un comico a cui la vita e la carriera non sorridono, lo ritroveremo più avanti smagliante dietro a un bancone in Blue Moon, presentato in anteprima alla Berlinale, a servire una quantità incalcolabile di drink al loquace Larry Hart, interpretato da Ethan Hawke.
Partiamo da “In viaggio con mio figlio”: che tipo di viaggio è stato?
«Unico, da ogni punto di vista. Il segreto di una buona performance è avere tanto tempo, non solo per provare, ma per parlare con chi ha ideato la storia. In questo caso con lo sceneggiatore Tony Spiridakis, il film è ispirato alla sua esperienza personale. Ho passato tanto tempo con lui a parlarne, a discutere su cosa sia davvero «la cosa giusta da fare» per i figli in certi casi».
Interpretare una storia vera fa la differenza?
«Sin dalla prima lettura del copione sentivo che si trattava di un’avventura scritta da qualcuno che quelle emozioni e difficoltà le aveva vissute per davvero. Mi sono reso conto che sarebbe stato un film speciale e ho accettato subito».
È allora che ha chiamato Robert De Niro?
«Non avrei mai fatto questo film senza di lui, averlo al mio fianco nei panni di mio padre è stato un sogno che si realizzava. Ci conosciamo da tempo e gli voglio molto bene, poi a livello attoriale è il più grande di tutti, si sa. Con me è sempre stato di grande supporto, è sempre venuto a tutti i miei spettacoli».
Avevate recitato insieme in “The Irishman” di Martin Scorsese.
«Anche lì era stato generoso. Un attore incredibile e un grandissimo essere umano, non vedevo l’ora di rilavorarci, così gli ho mandato la sceneggiatura di questo film e ne è rimasto subito colpito».
Sullo schermo lo vediamo cucinare, nella vita pare che De Niro non sia un campione dei fornelli, conferma?
«Confermo, non sa cucinare. Ha sempre avuto chi cucinava per lui».
Le è mai capitato nella vita di prendere e partire, senza avvisare nessuno, come fa nel film con suo figlio?
«Mille volte, da ragazzo. Scappavo sempre di casa, per mia madre non è stato facile, le davo parecchio filo da torcere».
Dove andava?
«In genere mi rifugiavo a casa di un amico che viveva a poca distanza, ma era l’era prima dei cellulari: noi ragazzi semplicemente sparivamo e nessuno sapeva dove fossimo».
Interpretare un padre e un uomo vulnerabile, che soffre, piange, sbotta in crisi emotive le ha fatto riflettere sull’importanza di raccontare un maschile lontano dallo stereotipo dell’uomo violento?
«È buffo, ricevo sempre questa domanda solo da giornalisti italiani».
Più che buffo, temo sia lo specchio della realtà che viviamo in questo Paese, le cronache raccontano sempre più casi di uomini violenti.
«Capisco, io posso rispondere solo come attore e ritengo che tutti gli uomini debbano essere rappresentati. Più sono multisfaccettati e pieni di sfumature emotive meglio è. Poi io considero la vulnerabilità una forza: essere in grado di ammettere di aver sbagliato, chiedere scusa e guardare qualcuno negli occhi confessando le proprie colpe è un gesto da “forti”, non da deboli».
Bisogna insegnare ai ragazzi a chiedere scusa e accettare i “no”?
«Io sto crescendo secondo questi valori i miei tre ragazzi, nella speranza che non abbiano paura di mostrarsi vulnerabili e siano sempre aperti, curiosi e intelligenti. Pronti a combattere un domani non come bulli, ma per qualcosa di nobile che ne valga la pena, come fa il padre che interpreto in questo film».
Padre che decide di infrangere ogni regola, disobbedire va ancora di moda?
«Basta guardare le proteste che fervono nei campus universitari, nel mondo ci saranno sempre pensatori liberi pronti a prendersi dei rischi, i governi autoritari non riusciranno a fermarli».
Con Rose Byrne, sua compagna anche fuori dal set, avete avuto parlato di temi come crescere un figlio autistico?
«Tutti i giorni. Non da soli, confrontandoci con i vari “advisors” presenti sul set, con Alex Plank, uno dei nostri produttori neurodivergente e con tutta una comunità di “esperti” che ci ha reso più consapevoli, aiutandoci anche nelle scene complesse, o in quelle con i dottori e le discussioni sulle medicine da far prendere o meno».
Teme che questo modo “artigianale” di fare cinema, di confrontarsi con le diverse competenze ed esperienze possa essere compromesso dall’avvento dell’intelligenza artificiale?
«Non la percepisco come una minaccia. È uno strumento, come i cellulari, ci abitueremo a usarla, ma io sto per compiere 55 anni e non sono preoccupato di perdere il lavoro. Credo che il cinema abbia e avrà sempre bisogno di persone reali che lavorino e portino il loro contributo unico e prezioso».
Come quello di William A. Fitzgerald, che nel film interpreta suo figlio.
«È stato bravissimo, ci abbiamo messo tanto a trovarlo. Abbiamo provinato cento ragazzini, non riuscivamo a trovare quello giusto, finché non ci è arrivato il suo video. Era perfetto, simpatico, appena ci siamo visti mi ha dato il primo e ultimo abbraccio, perché poi il suo personaggio non ama essere toccato e per lui è stata un’ulteriore sfida. Il suo senso dell’umorismo ha conquistato tutti, anche De Niro, con cui improvvisava alla grande».
A un certo punto spunta anche Jimmy Kimmel.
«Jimmy è stato super disponibile, ci teneva a dare una mano. Dato che il mio personaggio sogna di esibirsi al suo show ma alla fine non ci arriva, ci sembrava divertente piazzarlo ai titoli di coda. Jimmy ha amato l’idea, anche perché appena visto il film ha pianto dicendo: «Farò qualsiasi cosa mi chiediate».
Più avanti la vedremo in “Blue Moon” accanto a Ethan Hawke.
«Ethan è uno dei miei migliori amici, guardarlo recitare è un piacere. Abbiamo fatto le prove per tre settimane prima di girare, e io amo fare le prove, così come lavorare con belle persone. Ethan lo è e Richard Linklater anche, un regista indipendente che fa i film che vuole come vuole, senza stare a pensare a strategie di marketing o a compiacere il pubblico. Come fanno anche altri, penso a Wes Anderson, Sean Baker, Brady Corbet».
Tra i registi che ammira c’è qualche italiano?
«Devo la mia conoscenza del grande cinema italiano classico a Martin Scorsese, che lo conosce come pochi altri al mondo. Essendo suo allievo me ne sono appassionato anch’io».
E tra i registi di oggi?
«Luca Guadagnino fa dei buoni film, stilosi ma anche impegnati a rappresentare minoranze o persone che in genere non vediamo nei film. Mi ricorda l’americano Gregg Araki, che faceva un cinema queer bellissimo. Ma su tutti io amo Paolo Sorrentino, muoio dalla voglia di fare un film con lui. Riesce a unire l’arte, il realismo più brutale, il neorealismo dei maestri, l’umorismo alla Fratelli Coen, e uno sguardo unico, pieno di immaginazione. Ho amato i suoi La grande bellezza ed È stata la mano di Dio. Ero a un passo dal lavorarci insieme, poi è scoppiata la pandemia e non se n’è fatto nulla. Un vero peccato».