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 2025  maggio 04 Domenica calendario

L’orgoglio dei carnivori a carbone

In un meme che gira sui social un gattino bianco ascolta una canzoncina con il seguente ritornello: “La plastica nell’umido, le sigarette in mare. Non ce ne frega un cazzo, noi vogliamo solo inquinare”.
A postare il video è stato, ça va sans dire, il solito leone da tastiera con account falso, ma a cantare la canzoncina è una persona vera, piuttosto conosciuta, spesso ospite della trasmissione di Giuseppe Cruciani.
Il meme in questione, è solo uno dei tanti esempi di una forma di violenza nuova, più sottile e insieme più sguaiata, che si è affacciata nel dibattito pubblico. È una violenza che passa attraverso video virali, account falsi, shitstorm, frasi buttate lì con sconcertante leggerezza: «Se vedi un ambientalista, mettilo sotto con la macchina», «io il diesel lo lascio acceso apposta», «più plastica per tutti».
Slogan aggressivi che non hanno nemmeno la pretesa di essere intelligenti. Anzi, ostentano con orgoglio la propria stupidità. Crescono, si diffondono, vengono rilanciati quasi come atti di coraggio culturale, come gesti di ribellione.
Non stiamo parlando solo di scettici del cambiamento climatico o di semplici negazionisti. Si tratta di un fenomeno nuovo: un’ostilità sistematica e teatrale verso l’ambientalismo, che diventa bersaglio di una campagna di ridicolizzazione e, in alcuni casi, di odio dichiarato. Una forma di anti-ambientalismo militante, orgoglioso, che si propone come trasgressivo, alternativo, perfino rivoluzionario.
Come è successo che il discorso sul clima sia stato trasformato in un format di battute volgari?

Come è accaduta la normalizzazione delle forme più triviali di negazionismo, come in certi talk show che citano, come fossero fonti indipendenti, dati di fondazioni finanziate dall’industria petrolifera come l’Heartland Institute?
Quando hanno cominciato a ridere per le battute grevi, per gli insulti sull’aspetto fisico di Greta Thunberg? I Gretini, ve li ricordate? Che ridere, ma anche no. Da dove viene questa nuova, virulenta ondata di anti-ambientalismo? Per ricostruire l’anatomia di questa nuova forma di violenza culturale dobbiamo partire da lontano, dall’altra parte dell’oceano.
Rolling Coal
Da qualche anno negli Stati Uniti è diventata virale una tendenza chiamata Rolling Coal – letteralmente “carbone ambulante” – dove i proprietari di enormi pick-up modificano deliberatamente i loro motori diesel per emettere nubi inquinanti. Colonne di fumo nero sparato in faccia a ciclisti, pedoni e automobilisti che guidano auto elettriche, e cioè contro chi osa rispettare l’ambiente. Questa idiozia viene poi filmata e condivisa sui social: principale spazio di incubazione di questo demenziale fermento anti-ambientalista. Si tratta di una sottocultura che si informa, si riconosce, si unisce e si fomenta online.
Ma cosa può spingere una persona a spendere tra i 1.000 e i 5.000 dollari per trasformare il proprio veicolo in una locomotiva a carbone? La risposta è tanto semplice quanto sconcertante: il piacere di inquinare. I fan del Rolling Coal considerano simili scelte un’affermazione della loro libertà individuale, una sfida ai movimenti ambientalisti e, in certi casi, persino un’affermazione politica.
Per ottenere questa nebbia nera, i coal rollers modificano le pompe di iniezione, alterano l’alimentazione del motore e rimuovono il filtro antiparticolato. I più disturbati aggiungono addirittura interruttori che permettono di sparare fumo a comando, perfetti per colpire ignari passanti con un’improvvisa ondata di smog.
Meat influencer
Il Rolling Coal ha guadagnato popolarità con l’ascesa di Trump, in un contesto in cui il negazionismo climatico è diventato qualcosa di cui andare orgogliosi. Così come un’altra, tra le tante sottoculture di internet, nate come reazione all’onda verde del veganismo e più in generale dell’attenzione all’ambiente: i “meat influencer”, l’ennesima assurdità diventata virale nel sottobosco di internet.
Il vangelo dei meat influencer è la regola del BBBE (beef, bacon, butter, eggs – manzo, bacon, burro, uova) che prevede solo grasso, proteine e feticismo per la carne, che deve essere rigorosamente mangiata cruda. Niente verdure, niente frutta, niente carboidrati. Unica dieta ammessa – dicono – per risvegliare il vero potere del maschio.
Il loro guru è Shawn Baker, chirurgo ortopedico e autore del bestseller Carnivore Diet, paladino anti-vegan, divulgatore di teorie pseudoscientifiche e influencer da mezzo milione di follower.
Ma il volto più noto dei meat influencer è Brian Johnson conosciuto sui social come Liver King: quasi tre milioni di follower su Instagram, più di sei su TikTok. Barba lunga, torso nudo e una dieta a base di fegato crudo e testicoli. Si autodefinisce “ancestral CEO” e promuove la mascolinità tossica come lifestyle. Ma cosa spinge alcune persone – spesso giovani, a volte insospettabili – ad aggredire chi si occupa di ambiente? Da dove viene questa rabbia? Sicuramente in gioco c’è il meccanismo psichico della rimozione.

L’enormità della crisi climatica genera un’ansia collettiva e, come spesso accade di fronte all’angoscia, la mente umana reagisce con un meccanismo antico: la rimozione. Se qualcosa ci turba troppo, lo neghiamo. E se non riusciamo a negarlo del tutto, allora cerchiamo di sminuirlo. L’ambientalista, in questo senso, diventa il simbolo della cattiva notizia. Non è odiato per ciò che dice, ma per ciò che rappresenta: il limite, il cambiamento necessario, la rinuncia al consumo illimitato.
Ma non tutto si spiega con la psicologia. Esiste una dimensione più organizzata, più strutturata, di questo fenomeno che riguarda gli interessi economici e politici minacciati dall’ambientalismo. Le industrie legate ai combustibili fossili, l’apparato delle grandi opere ad alto impatto ambientale, alcune lobby energetiche: tutti soggetti che vedono nell’ecologia una minaccia alla conservazione di uno status quo economico, ad un sistema di potere che ogni giorno perde pezzi.

È qui che nasce il negazionismo climatico. Si finanziano studi pseudoscientifici per seminare dubbi, si sponsorizzano influencer che ridicolizzano le scelte ecologiche, si alimentano narrazioni tossiche nei canali di informazione. Tutto questo ha un solo obiettivo: delegittimare l’ambientalismo trasformandolo da istanza universale a ideologia di parte.
Il passaggio è pericoloso. Perché se chi si batte per l’ambiente viene rappresentato come un moralista, un fanatico, un nemico del progresso, allora chi lo attacca diventa – paradossalmente – un difensore della libertà, un anticonformista.
Sarebbe un errore, però, derubricare questo fenomeno alla voce sottocultura del web, perché una parte del problema è tutta interna al mondo ambientalista, e ha a che fare con il compiacimento e la superiorità morale.
Come è successo che non abbiamo visto arrivare i gilet gialli in Francia, il movimento degli agricoltori in Italia, che al di là del merito, poneva domande giuste e cioè chi paga i costi della transizione energetica? E ancora la conversione forzata alle pompe di calore in Germania, che ha decisamente aiutato l’ascesa del partito neonazista Afd.
Per anni, si è parlato di transizione energetica, senza capire che se la competizione è tra chi ha paura della fine del mondo e chi ha paura della fine del mese, a vincere sarà sempre quest’ultima perché arriva prima. Ed è proprio la mancata saldatura tra ambiente e giustizia sociale che ha fatto apparire il discorso climatico come astratto e punitivo, aprendo il varco alla propaganda reazionaria.
L’odio contro l’ambientalismo è un sintomo. Come tutti i sintomi, va letto, non solo condannato. Dice che qualcosa è stato rimosso, qualcosa non è stato spiegato, qualcosa è stato percepito come ostile. Ma dice che serve anche una nuova grammatica della narrazione ambientale. Più dialogo, meno chiusura. L’ambientalismo deve uscire dalla sua bolla, accettare la complessità, confrontarsi anche con chi parte da posizioni ostili. Le buone ragioni non servono se non abbiamo le parole giuste per raccontarle.