La Stampa, 4 maggio 2025
Intervista ad Amanda Sandrelli
«È stato l’incontro con il teatro e con il mio futuro marito, avvenuti quasi insieme, a farmi capire che essere attrice era la cosa che preferivo». Prima pensava a psicologia, racconta Amanda Sandrelli: iscritta per ben due volte all’università, «avevo frequentato ma senza dare esami». E questo perché il cinema si metteva sempre in mezzo. Entrato nella sua vita in modo casuale ma dalla porta principale di un film di culto, Non ci resta che piangere. Sarebbero venute altre pellicole, molte fiction tv, svariati premi. Il teatro si sarebbe aggiunto solo dopo, relativamente tardi, ma alla fine è al solo teatro che si dedica da una decina d’anni. Al Teatro Manzoni di Milano il 6 maggio chiude la lunga tournée di Vicini di casa. Adattamento della commedia dello spagnolo Cesc Gay, regia di Antonio Zavatteri, con Gigio Alberti, Alessandra Acciai e Alberto Giusta, è «una macchina da guerra comica, dai dialoghi brillanti e con personaggi di spessore».
Lei è Anna, moglie di Giulio, coppia arenata nella routine.
«È lo spunto per parlare di sesso e di come le coppie arrivino a non “toccarsi” più. Senza scomodare Bergman, mette il dito nella piaga dei comportamenti di persone che magari provano ancora affetto ma vivono crisi profonde. È commuovente scoprire che l’amore non basta, rosicchiato da dinamiche quotidiane che lo consumano».
Dopo 20 anni insieme e due figli, anche lei si è separata da Blas Roca-Rey. Quanto in Vicini di casa ha trovato del proprio matrimonio?
«Direi piuttosto che per interpretarla ho fatto tesoro di ciò che ho sperimentato nella vita di coppia. All’inizio il sesso comanda: ti vedi e ti appiccichi. Più avanti la sfera erotica la devi cercare, ma è importante mantenerla: serve a tenere uniti, o a ritrovarsi nelle crisi. Noi purtroppo non siamo riusciti a ritrovarci».
A Milano è vissuta per anni. Ritroverà vecchi affetti?
«Ci ho vissuto tra gli 8 e i 13 anni, in un momento importante della mia vita (venne mandata a vivere con il padre Gino Paoli per allontanarla dalle tensioni tra la madre e l’allora marito Nicky Pende, ndr). Ho ricordi bellissimi: una seconda famiglia, i primi amori e amici importanti. Purtroppo ci torno in un momento molto faticoso: mio fratello Giovanni, di pochi mesi più grande, è mancato improvvisamente a marzo. Ai tempi ci eravamo subito trovati ed eravamo molto legati. Ci vorrà tempo prima che la sofferenza si attenui un po’. Ma ne approfitterò per stare vicina a sua madre, con cui ho condiviso quegli anni e questo dolore. Spero di poter ricambiare tutto l’affetto che mi ha dato».
Eravate una famiglia allargata, cosa insolita nell’Italia anni 70. Ne soffriva?
«Più della famiglia allargata fu la nascita a fare scalpore: perché erano coinvolti due artisti famosi, babbo già sposato e mamma minorenne. Non mi è mai pesato invece far parte di una famiglia... complessa. Anzi ricordo il piacere di certe grandi tavolate allegre e caciarone, piene di gente che si voleva bene. Allargata ricorda allegria. E poi Anna e Stefania sono state un grande esempio: tra loro un affetto vero e sano».
Il suo rapporto con Blas?
«Avere una famiglia unica e unita era il mio sogno. Non è stato possibile. Stare insieme per forza sarebbe stato un disastro. Ho sofferto? Sì. Ma il tempo cura le ferite. Si deve andare avanti. Blas ora ha una bimba di 8 anni: la vedo poco ma le voglio bene. È pur sempre la sorella dei miei figli».
I suoi fratelli (oltre a Giovanni, anche Tommaso, Nicolò e Francesco, figli però di Paola Penzo) sono dei Paoli. Lei sola non porta il cognome di suo padre. Come mai?
«La legge di allora. Alla nascita non potevano riconoscermi entrambi: all’anagrafe sarei stata comunque figlia di NN, uno dei genitori segnato come ignoto. Fu mamma a decidere: avrei perpetrato il suo cognome, cosa che non mi dispiace affatto. Ora però l’ho doppio: Sandrelli Paoli (diventare a 20 anni Amanda Paoli mi faceva strano). Nelle carte è anche uscito un secondo nome, Angelica. Ora, quando firmo un atto ufficiale, non la smetto più».
E suo padre in tutto ciò?
«È un poeta. Sostiene che ciò che prendi dalla vita se ne va con te, mentre quello che dai rimane negli altri e continua a girare per il mondo».
Ha sempre detto che è stato il caso a fare di lei un’attrice.
«E Troisi e Benigni. Senza loro non avrei mai preso questa strada. Li conobbi a una festa di mamma e un anno dopo mi cercarono per Non ci resta che piangere. Non avevo nessuna preparazione, “ma se loro mi vogliono, perché no?”. Debuttai senza nessuna ansia da prestazione: mi suggerivano quello che dovevo fare e dire e, poiché ho orecchio, li imitavo facilmente. Le ansie sarebbero venute dopo».
Un’esperienza unica.
«Mai più fatto un film così. C’era un canovaccio molto generico, decidevano di giorno in giorno, improvvisando tantissimo. Il problema era che sul set ridevano sempre tutti (anche loro). Ogni tanto dovevano restare soli con attori e operatore, se no non si andava avanti. Ricordo le risate quando Massimo si presentò per la prima volta con la calzamaglia nascondendosi davanti con le mani perché si vergognava. Irresistibile».
I suoi genitori sono mai intervenuti nelle sue scelte?
«Non mi hanno mai fatto mancare i dovuti complimenti a cose fatte, ma niente più. Si sono sempre tenuti alla larga dalle mie scelte. All’inizio mi spiaceva ma, ora che sono mamma anch’io, capisco la saggezza di non far sentire il peso delle aspettative».
Se deve descriverli?
«Gino è burbero come sembra, ma sotto sotto è un tenero. Bravo a scriverne, ma non a manifestare i sentimenti. Mamma è generosa, calda, gioiosa. Sono sempre stata fiera di lei, della sua fama e della sua bellezza. Entrambi mi hanno insegnato la libertà: si sono fidati di me. E direi che è andata proprio bene».