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 2025  maggio 04 Domenica calendario

Intervista a Roberto Perpignani

Bastano i suoi occhi.
Guarda tutto, rapisce immagini, non li sbatte mai, non li muove di scatto. Inquadrano, o fissano, per un piano sequenza lungo 84 anni.
Sorridono, sempre. Raccontano di più. Sembrano due telecamere, anzi due moviole, fisse sull’esistenza e i sui suoi protagonisti.
Roberto Perpignani è il montatore del grande cinema: ha lavorato con Bernardo Bertolucci, i fratelli Taviani, Marco Bellocchio, Alberto Lattuada, Alberto Faenza, Nanni Moretti. E oltre.
L’oltre è Orson Welles.
Ha iniziato con lui. Un anno infinito insieme al mito di Quarto potere, chiusi in un garage del litorale romano. “E quando nasci non sai in che stalla ti trovi…”.
La sua, di stalla?
A sedici anni mamma mi ha inquadrato l’oggi: ‘Non ho i soldi per i libri. Non puoi studiare’.
E lei?
Il giorno dopo sono andato a lavorare: tappezziere.
Come mai tappezziere?
Mamma era sarta per il teatro e per il cinema, oltre che per le case dei benestanti; il mio primo giorno mi mostrano una poltrona da sistemare, spiegano come, e ho iniziato; (pausa) tutto nasceva dal nucleo essenziale dei mestieri semplici: mia nonna era stiratrice, mamma a dieci anni portava alle famiglie le gerle con i panni stirati. Poi è diventata tintora. Ancora dopo è partita per il Sudafrica come sarta teatrale ed è tornata nel 1935-36. Allora ha conosciuto mio padre.
Suo padre?
Molto più grande di mamma, separato da 25 anni, con tre figli. Io sono nato nel 1941, lui aveva sessant’anni: nel 1946 è morto. Era direttore del gabinetto fotografico, amico di molti artisti dell’epoca; (pausa) le sue macchine fotografiche erano più alte di me, con i cavalletti che avevano zampe grosse come quelle degli elefanti.
Sarebbe potuto diventare direttore della fotografia.
Non ci ho mai pensato; ho tradotto la passione per le foto nel desiderio di dipingere, per questo chiesi a mamma di iscrivermi al liceo artistico. Da lì il “no”.
Da lì tappezziere.
Anche figurante a Cinecittà, al Teatro dell’Opera e a Caracalla; (sorride) sono uno degli scugnizzi in Carosello napoletano (1954): sono il ragazzino che gioca a carte con il prete sulla scalinata della chiesa.
Affascinato dal set?
In realtà mi beccai dello “stronzo” da Ettore Giannini (il regista, ndr) perché stavo in piedi al momento del ciak; ricordo alla perfezione il mio stupore: ‘Stronzo a me? Come si permette’.
Non proprio intimidito…
Ero sempre a Cinecittà, mi sbattevano perennemente in scena. Così sono finito in Casa Ricordi, Casta diva, Guerra e pace; appena potevano, i responsabili del cast mi chiamavano: ‘Robe’, vie’ qua!’.
Addio studi.
Non proprio: in quel periodo mi sono iscritto alla Scuola di Arti ornamentali, una scuola di mestieri, per il corso di pittura: erano previsti cinque anni di studi. Al quarto mi hanno assegnato il diploma, nonostante volessi continuare ‘nooo, hai finito!’; nel frattempo ero entrato in contatto con un’organizzazione, la Cemea (Centro di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva).
In sostanza?
Frequentavo dei corsi per assistere creativamente i bambini; un metodo con basi antropologiche molto interessanti: costruzione di strumenti musicali, lezioni di danza popolare. Qualcosa di meraviglioso: alla fine avrei dovuto raggiungere Danilo Dolci in Sicilia.
Ha mai applicato questi studi?
Con tre ragazzi; (pausa) uno di loro aveva bisogno di aiuto perché era appena rientrato dalla Russia; (resta in silenzio, ci pensa) era Giuliano Ferrara.
Cioè?
Il padre era stato il corrispondente de l’Unità da Mosca e quando la famiglia è tornata in Italia, Giuliano aveva delle incertezze tra l’italiano e il russo. L’ho seguito per un anno.
Tutto questo e siamo ancora ai suoi vent’anni.
Un giorno mi chiama il quarto figlio della mia sorellastra: lavorava con Orson Welles.
Così, semplice.
Welles era sposato con la contessa Paola Mori e viveva nella loro villa di Fregene; (sorride) una villa appropriata allo status di Welles.
Bene.
Nel garage aveva organizzato lo studio con due moviole: stava montando Nella terra di Don Chisciotte poi trasmesso dalla Rai: dodici puntate di mezz’ora, dedicate alla Spagna.
E lei?
Mio nipote Mariano era con lui nel ruolo di apprendista al montaggio; Welles aveva bisogno di esecutori, non di montatori, perché se ne occupava in prima persona. Fino a quando decide che c’era bisogno di un altro giovane, e pensano a me. Mi chiamano, mi spiegano tutto…
Sapeva chi era Welles?
Frequentavo i cineclub; comunque rifiuto, pensavo ad altro per la mia vita.
La svolta?
Da ragazzino povero vivevo con mamma in una camera ammobiliata, e nello stesso palazzo c’era Marcello Venturoli, critico d’arte di Paese Sera. Frequentavo quella casa anche perché Marcello aveva un figlio, Francesco, che sognava di diventare regista. A Francesco racconto della telefonata, lui cambia espressione e urla: ‘Corri!’. Io scosso. Ci penso. Scatta qualcosa e mi precipito a Fregene. Suono al cancello. Ed entro nel garage.
Prima impressione.
Tutto buio. Con solo due lucine accese. In mezzo c’erano delle ombre che si muovevano.
Già questo è cinema…
Una delle ombre era circondata dal fumo di un enorme sigaro: era Orson Welles.
Intimorito?
No, la soggezione era più dovuta al fisico. Però emanava autorevolezza; l’aspetto curioso è che ricordo di lui una sagoma nera, lo intravedevi in controluce.
Lo ricorda in bianco e nero.
È così. Per fortuna parlava italiano, così come l’inglese, il francese, lo spagnolo. La Spagna, la riteneva la sua terra d’adozione.
Quanto tempo è stato con lui?
Un anno intero. Tutti i giorni. Una forma di sequestro: ci salutava alle tre di notte e pretendeva di ricominciare alle nove del mattino. Ci mettevamo un’ora per rientrare a Roma e un’altra per tornare a Fregene. In sostanza per un anno abbiamo dormito tre ore a volta.
Eravate in missione per conto di Welles…
Ricordavo ogni fotogramma del film, avevo tutto a memoria…
All’inizio non sarà stato semplice.
Per quindici giorni mi ha lasciato campo libero per imparare, è stato l’uomo più paziente mai conosciuto.
Era davvero così?
In realtà era l’uomo più impaziente, insofferente e incazzoso mai conosciuto; il lavoro per lui era veramente complicato e passati quei quindici giorni mi ha mandato al galoppo: non potevo fermarmi. Mai.
I rapporti tra di voi.
Ci davamo del “lei”.
Per tutto l’anno?
Sempre, però ci chiamavamo per nome.
E quando sbagliava?
Mi chiedeva il perché dell’errore; (sorride ancora di più) ogni volta provavo a spiegare la natura dell’errore e il mio incipit era: ‘Pensavo che…’ (silenzio).
E lui?
Puntualmente replicava: ‘Roberto, non deve pensare’. A vent’anni una frase del genere non la tolleri, e il suo sguardo mentre la pronunciava lo ricordo quasi fisicamente.
C’è un fino a che…?
Dopo Nella terra di Don Chisciotte Welles inizia a lavorare a Il processo e chiama me e Mariano per raggiungerlo a Parigi con le due moviole…
Capiva la grandezza di quello che le stava capitando?
La intuivo, non ero in grado di valutarla appieno.
Insomma, Parigi.
Ne Il processo c’è una scena chiave con Anthony Perkins, una sequenza angosciante, con le famiglie urlanti. Lui ci voleva sopra del jazz. Allora mi convoca e spiega: ‘Devo andare a prendere mia moglie, nel frattempo le chiedo di montare dei pezzi di musica dove le dico’. Ascoltavo e mettevo dei segni, prendevo appunti. ‘Quando ha finito mi raggiunga al mixaggio’. Resta zitto. ‘Lo può fare?’. ‘Sì’. Quindi si alza, va alla porta, la apre. Si ferma di nuovo. Mi guarda. ‘Ne è sicuro? Può?’.
Ricorda tutto nitidamente.
Sono fotogrammi nella mia mente.
E lì?
Inizio a lavorare, ma non tornava nulla: erano stati invertiti i jack dell’amplificatore: i segni non quadravano. Per qualche secondo resto immobile. Poi in me scatta qualcosa: ‘Ho capito cosa ha detto, posso andare avanti lo stesso’. Finisco. Raggiungo la sede del mixaggio. Lui era lì. Mi avvicino e nell’orecchio gli spiego l’inciampo. Serafico, risponde: ‘Non è un problema, non si preoccupi’. Io non contento mi piego di nuovo: ‘Ho seguito le sue indicazioni: vuole verificare?’. ‘No’.
Come, no?
Riprovo: ‘Ho fatto come lei voleva. Vuole verificare?’ ‘No’. Mi siedo in poltrona. Dopo un po’ Welles si alza, va in mezzo alla sala e si rivolge a me: ‘Roberto, carichi quella sequenza’. Salgo in cabina, controllo, mi assicuro che tutto sia al posto giusto. Mi preparo. Parlo con il fonico. Il fonico meraviglioso, eccezionale, becca tutto in modo magico. Si accende la luce. E Welles si rivolge a me: ‘Bravo’.
E lei?
Mi chino al suo orecchio e rispondo: ‘Questa volta ho dovuto pensare’.
Non ha resistito.
Welles mi ha regalato uno sguardo di una violenza, di una cattiveria mai vista prima. Se fosse stato Apollo mi avrebbe bruciato.
Quello sguardo…
L’ho retto, mentre pensavo: ‘Te lo dovevo, non reggevo più’. Dopo pochi giorni ci siamo salutati: lui andava in Spagna, io tornavo in Italia.
Vi siete più visti?
No, mai.
Perché?
Avrei potuto raggiungerlo in Spagna, ma avevo conosciuto una ragazza, la figlia dell’albergatore di Parigi, e il progetto era di sposarci: Welles non desiderava con sé persone legate sentimentalmente.
Dediti solo a lui.
Poi quando è tornato in Italia oramai ero montatore, lavoravo con Bernardo (Bertolucci, ndr).
Ma…
Non me la sono sentita, per pudore e senso di colpa.
Di cosa?
In Italia dovevano distribuire Quarto potere, ma per la casa di distribuzione era troppo lungo di dieci minuti. Sapevano che avevo lavorato con Welles, così mi contattano: ‘Ci pensi tu?’. ‘Assolutamente no’. ‘Guarda che se non ci pensi tu, lo diamo a qualcun altro che sicuro taglia peggio di te’. Ho accettato. E ho tagliato dieci minuti dal film mito della storia del cinema.
Terribile.
Come potevo presentarmi da Welles? Tanti anni dopo gli ho inviato un biglietto di auguri per il compleanno.
Welles quanto ha inciso sul suo lavoro?
Tempo dopo mi hanno chiesto: ‘Cosa hai imparato da lui?’. Inizialmente non sapevo cosa rispondere; poi ho iniziato a riflettere e i fatti si sono associati alle parole: ‘Welles segnava la pellicola in questo modo (e disegna in aria un movimento dall’alto al basso, poi verso sinistra). Anche io. Welles lavorava con due moviole. Anche io’. E poi: ‘Welles costruiva le sequenze in modo progressivo: dal più ampio, man mano le andava asciugando fino alla sintesi. Anche io’.
Perfetto…
Rispetto a questo aggiungo la parte più importante: Orson Welles mi ha insegnato a pensare.
Un anno magnifico.
Mi ha trasferito tutto senza alcuna didascalia. Ancora oggi lavoro così.