Corriere della Sera, 3 maggio 2025
Intervista a Vincenzo Nibali
«Ero un carusu dannificu, un bambino che combinava danni e attirava guai come un parafulmine. Una vetrata pericolante? La tiravo giù a sassate. Ho fatto esplodere con i petardi metà delle cassette delle lettere del quartiere Boccetta, il mio, ho rischiato di schiantarmi in discesa con la macchina a pedali, ho lanciato un motorino contro il muro mancando di poco una passante. Un ragazzino di strada che poteva anche prenderne una brutta, di strada. Ma grazie a mio padre e alla bicicletta ne ho imboccate altre, tutte in salita: il santuario di Dinnammare a picco sullo Stretto, Novara di Sicilia, l’Etna che mi ha fatto capire che nella vita sarei stato ciclista».
Assieme a Coppi e Bartali avvolti in una luce mitologica e a Felice Gimondi, Vincenzo Nibali, 40 anni, è il ciclista italiano più vincente della storia. Ha conquistato tutti e tre i grandi Giri (quello d’Italia due volte), due delle cinque classiche-monumento (una terza gliel’hanno scippata, poi vedremo come) e cinquanta altre grandi corse.
Quali le cattive strade per un adolescente messinese negli anni Novanta, Vincenzo?
«Leggendo della sparatoria di Monreale, dei tre giovani uccisi da un diciannovenne armato, ho pensato a quant’è stretto il bivio tra le direzioni che puoi prendere. Messina non era una città mafiosa o particolarmente violenta ma avevo compagni che venivano a scuola con la pistola nello zaino».
Niente mafia.
«Cose grosse non ce n’erano. Le immagini di Capaci mi sono rimaste dentro per anni e passando accanto alla voragine sull’autostrada ho tremato. Ma il pizzo sì, c’era».
Esperienza diretta?
«La cartoleria dei miei genitori. I pizzini che ti invitavano a pagare, la bottiglia di benzina fatta brillare dietro la serranda, la casa messa a soqquadro come avvertimento».
Come se ne esce?
«Testa alta, schiena dritta».
Quando arriva la bici nella sua vita?
«A dodici anni, con mio padre e i suoi amici cicloturisti. Sempre in salita, ché da Messina si esce solo scalando».
Le piaceva?
«Mi piaceva la bici come oggetto, mi piaceva viaggiare, mi piaceva vincere. La domenica si partiva stretti nell’ammiraglia della Cicli Molonia, più verso il continente che in Sicilia: ogni volta che il Caronte attraccava a Villa San Giovanni, il signor Molonia ripeteva “’rrivammu in Italia”. E noi a ridere».
Poi l’isola cominciò a starle stretta.
«Divoravo Il Mondo del Ciclismo, il settimanale con i risultati delle gare nazionali e vedevo tanti siciliani in Toscana. Volevo essere come loro. A quindici anni vinsi una corsa a Siena e decisi di non tornare più a casa».
Senza voltarsi indietro?
«Sì. Amo la Sicilia, ma mai nostalgia, mai un rimpianto, al contrario di tanti compagni, di tanti emigranti. Sarà che ero un ragazzino poco affettuoso, non abbracciavo, non cercavo il contatto fisico con i genitori. Forse questa freddezza, che per altri versi ho sofferto, mi ha aiutato a rendere più leggero il distacco».
Cosa le hanno detto i suoi quand’è partito?
«Vai in casa d’altri, comportati come si deve. Se ti impongono scelte sbagliate torna e troverai sempre noi e un lavoro. Una frase decisiva».
A che scelte si riferivano?
«Al doping, se ne parlava tanto in quegli anni. Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto: in quel momento il ragazzino dannificu è svanito».
Come si viveva in Toscana, a Mastromarco di Lamporecchio?
«All’inizio era dura: sveglia alle sei, bus alle sette, alle otto a scuola ad Empoli. Mai stato uno studente modello, facevo solo quello che mi piaceva e più mi obbligavano più rifiutavo. Vivevamo con la famiglia di Carlo Franceschi, il direttore sportivo che ci ha adottato e coccolato, ed eravamo tutelati da Bruno Malucchi, manager e vero signore. Siamo emigrati in tanti, sono rimasto solo io. Tornavo a casa nella cuccetta a sei posti dell’Espresso 1938 da Firenze a Villa San Giovanni».
Siciliani che rimangono, che partono, che tornano.
«Restare al Sud non è una sconfitta se ti dai da fare, lo è tornare se hai fallito. Il terrone che ha successo è l’orgoglio dell’isola, chi rientra a testa bassa paga con lo scorno. “Chi sapi chi vulia fari!”, pensano quando ti rivedono, “Chissà cosa si era messo in testa di fare!”».
Primo anno da professionista, la spediscono alla terribile Liegi-Bastogne-Liegi.
«Metà dei partenti si ritirò, io arrivai ultimo e staccato. Una grande lezione».
Al Giro d’Italia lei fu terzo nel 2010, secondo l’anno dopo, primo nel 2013. Sul podio un sorriso appena accennato, come in tutte le sue vittorie.
«Consideravo vincere una cosa normale, non riuscivo mai a lasciarmi andare. Inconsciamente credo che il passaggio da ragazzino discolo a uomo maturo mi abbia cambiato dentro: sempre con il freno a mano tirato tranne che in bici».
«Credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono», scriveva Leonardo Sciascia.
«Parlavo poco o niente e non facevo proclami nemmeno sotto tortura. Ora mi rendo conto della bolla in cui vivevo: pensavo solo alla bici e quando mi affacciavo su un mondo a me sconosciuto mi chiudevo a riccio».
Dal 1965 a oggi solo Gimondi, Pantani e Nibali hanno vinto il Tour de France.
«La più grande gioia della carriera che per un anno si è trasformata in un incubo. Ero travolto, schiacciato da popolarità, richieste, tifosi e giornalisti. Quando passeggiavamo con la bambina in carrozzina ci assalivano. Con mia moglie Rachele volevamo solo scappare da tutto e tutti. Poi ci siamo abituati ma è solo quando ho smesso di correre che ho cominciato davvero a vivere».
Nel 2012 lei arriva secondo alla Liegi, battuto da un carneade kazako (Maksim Iglinskij) che poco dopo venne trovato dopato.
«Non mi sono mai posto la domanda di quanto ho perso per colpa del doping, probabilmente tanto. Alla Vuelta me la giocai con tale spagnolo Mosquera, poi radiato. E se avesse vinto lui e non l’avessero scoperto?».
Lei ha avuto capitani, gregari, compagni che si sono dopati.
«Andavano alle corse come si andava in guerra, era un fatto culturale per quella generazione. Detto questo, se non volevi non ti dopavi: la generazione successiva ha cambiato il modo di pensare e se adesso c’è un ciclismo pulito credo sia anche merito nostro».
Eppure i sospetti c’erano.
«Vincevo, ero italiano e il boss della mia squadra, Vinokourov, aveva un passato ambiguo come altri manager. Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina e controllato il telefono e sono sicuro che mi siano entrati anche in casa per trovare prove che non esistevano. I ciclisti erano bersagli facili. Mai nella vita mi sono dopato e soprattutto mai ho pensato di farlo. Mi hanno controllato un milione di volte, possono testare le provette tra cent’anni. A testa alta, sempre».
Lei ha trascorso complessivamente due anni della sua vita in ritiro sul Teide, il vulcano della Canarie.
«Io e i compagni, come monaci in clausura sulla luna. A faticare, a giocare e litigare. In quel modo io, Vanotti, Tiralongo, Scarponi, Agnoli e gli altri ci siamo conosciuti così bene che in corsa non c’era nemmeno bisogno di parlare. Eravamo un corpo solo».
Nel 2016 lei perse un oro olimpico già vinto a pochi chilometri dall’arrivo, cadendo in una curva dissestata.
«A spostare la ruota un centimetro di troppo verso il burrone sono stato io, consapevolmente, per andare più forte. Mio il rischio, mie colpa e sconfitta. Succede».
E adesso, Vincenzo?
«Faccio mille cose, tra cui promuovere il Giro d’Italia. Ma soprattutto, vivo. In aprile ho viaggiato in Sicilia con la famiglia per mostrarla bene a Emma e Miriam, le bambine. A due anni dal ritiro, il primo viaggio da turista della vita: Cefalù, la valle dei Templi di Agrigento, la Villa del Casale di piazza Armerina. Tornando a casa siamo passati davanti al Museo Regionale ed Emma mi ha chiesto cosa ci fosse da vedere. C’è Antonello, le ho detto, un gigante della storia dell’arte. Quando la vedi tramite Antonello o dalle grandi foreste dei Peloritani, Messina è davvero “u megghiu posttu nto munnu”».