corriere.it, 3 maggio 2025
Tra Shenzhen e Los Angeles mercantili fermi davanti ai porti: l’ingorgo delle navi portacontainer senza lavoro
L’ingorgo delle navi ferme davanti al porto cinese di Shenzhen è visibile in tutte le mappe virtuali che tracciano il traffico marittimo e lo è a 6.500 miglia nautiche di distanza, a Los Angeles. Lì, in modo più concreto: è nei grandi porti adiacenti di Long Beach e della metropoli californiana stessa che attraccano buona parte dei portacontainer che arrivano dalla Cina, ma in queste settimane il traffico sta bruscamente frenando. Molti mercantili attendono di essere pieni per partire dalla Repubblica popolare, ma gli esportatori a loro volta attendono di conoscere le condizioni che troveranno negli Stati Uniti.
Le navi ferme
Non sono solo le barriere di Donald Trump, è anche l’incertezza a tenere le navi ferme a Shenzhen o a Shanghai. Per questo, mentre la speranza di un accordo sui dazi «reciproci» riporta l’indice della Borsa di Wall Street ai livelli di un mese fa, sono gli indici materiali dei porta-container che ora iniziano a scendere. Più ancora che nei costi doganali, la ragione è probabilmente nell’impossibilità di prevederli.
L’incertezza sui dazi
La navigazione da Shenzhen a Los Angeles richiede almeno tredici giorni ma, prima di spedire, gli esportatori hanno bisogno di conoscere le condizioni che troveranno all’arrivo. Oggi per il 77% del valore di export cinese in America sono in vigore dazi del 145% sopra ai livelli di fine gennaio (solo l’elettronica di consumo è esente) e il prelievo si calcola al momento dell’attracco negli Stati Uniti.
Chi spedisce oggi sa che, se nulla cambia, dovrà far fronte ai dazi più alti nella storia fra i due Paesi. Ora le aperture al negoziato, da entrambi i lati, lasciano sperare gli operatori che Pechino e Washington troveranno un compromesso. Difficilmente sarà un ritorno alla situazione di inizio anno, ma contano che sia più praticabile di oggi.
Scambi fermi tra Cina e Usa
Nel frattempo, senza sapere cosa accadrà, fra la prima e la seconda economia del mondo molti degli scambi da quasi 700 miliardi di dollari (nel 2024) si stanno fermando. Secondo quanto riferito da Bloomberg, ha commentato due giorni fa il direttore esecutivo del porto di Los Angeles Gene Seroka: «Iniziamo a vedere un rallentamento del flusso dei cargo. Tra due settimane gli arrivi scenderanno del 35 per cento – ha detto il manager – dato che essenzialmente tutte le spedizioni dalla Cina per i grandi rivenditori al dettaglio e per i produttori si sono interrotte». Seroka ha aggiunto, per sottolineare come persino i dazi più bassi al 10% sul resto del mondo stiano generando un impatto severo: «Anche le spedizioni cargo da altre aree dell’area del Sud-Est sono molto più lente del normale».
L’allarme della gdo
È verosimile che l’amministrazione Trump comprenda – adesso – i suoi errori sui dazi dell’ultimo mese. Uscire dall’impasse senza dare l’impressione di cedere a Pechino non sarà semplice, ma il tempo stringe. I leader della grande distribuzione – Home Depot, Target e Walmart – hanno già avvertito Trump che a giugno, di questo passo, compariranno i primi vuoti nei loro scaffali. La semiparalisi dei porti e della logistica rischia di innescare licenziamenti a catena fra i colletti blu, esponendo i 300 mila operai dello scalo di Los Angeles e milioni fra camionisti, magazzinieri e addetti ai negozi in tutta America: gli stessi lavoratori che l’amministrazione Trump dice di voler proteggere.
Il sindacato dei portuali
International Longshore & Warehouse Union, il sindacato dei portuali californiani, sta già attaccando il governo: «I dazi sono tasse – recita la sua dichiarazione di tre giorni fa —. Queste e altre scriteriate, miopi misure hanno iniziato a devastare i lavoratori americani». C’è poi un ultimo motivo per cui Trump non ha molto tempo per uscire dal vicolo cieco in cui si è messo: molti grandi distributori operano su commesse pagate a debito e, se gli affari si fermano, il loro stress finanziario verrà presto a galla.
La domanda a questo punto dunque non è se Trump voglia fare marcia indietro, perché non ha scelta. È quanto tempo ha per riuscirci, prima che i danni all’economia americana si facciano ancora più seri.