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 2025  maggio 03 Sabato calendario

Lettere anonime e minacce: boom di attacchi ai giornalisti che difendono l’ambiente

«Quando si pensa a minacce e intimidazioni, la prima categoria che viene in mente è quella dei giornalisti che si occupano di criminalità organizzata. Ma, man mano che lavoravo a questa inchiesta, mi sono resa conto che la situazione è almeno altrettanto grave per quelli che si occupano di questioni ambientali e cambiamento climatico».
A parlare è la giornalista d’inchiesta Marta Frigerio che, insieme al collega Gianluca Liva, per cinque mesi ha curato la parte italiana del progetto dell’Osservatorio sulle campagne di disinformazione di International Press Institute, che La Stampa pubblica in anteprima.
È la prima volta che in Italia viene presentata un’analisi statistica aggiornata e dettagliata sulle minacce online subite da giornalisti che si occupano di ambiente e di clima. Siamo in presenza di nuove forme di violenza e di intimidazione che, nel migliore dei casi, portano all’autocensura. Quello del cambiamento climatico è un tema che, come pochi altri, polarizza l’opinione pubblica. «Ho intervistato decine di colleghi, molti mi hanno raccontato di aver subito pressioni, di essersi dovuti autocensurare, e alcuni sono stati vittime di SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation), cioè cause legali pretestuose intentate con l’obiettivo di zittirli, scoraggiarli, intimidirli. Altri ancora hanno ricevuto lettere anonime e minacce di morte», aggiunge Frigerio.
I due giornalisti hanno scavato per mesi, con metodo da entomologi, nel sottobosco del web, identificando migliaia di profili falsi, ricostruendo le connessioni degli attacchi attraverso mappe concettuali, dimostrando l’esistenza di una vera e propria falange armata di odio online, pronta a colpire il malcapitato di turno.
Uno studio importante che ha scoperchiato un vaso di pandora di proporzioni gigantesche dal quale è venuto fuori di tutto: politici, giornalisti di destra, propaganda russa, no vax, no euro e anti-ambientalisti. All’appello, in questa variegata compagnia, mancano solo i terrapiattisti.
Il quadro che emerge è inquietante, ma molto interessante, soprattutto per chi scrive. Sono stata infatti bersaglio privilegiato (per così dire) di una sequenza di aggressioni on line piuttosto impressionante. «Ti stupro e ti spedisco a casa tua», è soltanto uno delle migliaia di insulti e minacce che ricevo ormai dalla scorsa estate. Tutto nasce dall’uscita di un mio libro dedicato al fenomeno dell’ecofascismo (una specie di pseudo-ambientalismo di destra) e da mie dichiarazioni televisive, basate su importanti studi sociologici internazionali, riguardo al nesso fra cultura patriarcale, abuso dei combustibili fossili, ingiustizia climatica. Dalle tre shitstorm che mi hanno investito nell’arco di questi mesi e che sono oggetto dello studio – e, bene precisarlo, di due mie denunce alla Polizia Postale – è emersa l’esistenza di una formidabile rete di relazioni che avvia e fomenta attacchi mirati contro individui portatori di opinioni in contrasto con il violento negazionismo climatico di tali ambienti.
«La nostra analisi – spiega Gianluca Liva – condotta con un software molto avanzato, ha permesso di delineare il profilo degli account responsabili di questi attacchi. Abbiamo esaminato i post pubblicati su X e Instagram, anche se un’indagine più approfondita ha rivelato che l’argomento è stato discusso anche su VKontakte, un social network molto popolare in Russia, e su Gab, una piattaforma di microblogging americana nota per la sua base di utenti di estrema destra, oltre che su numerosi canali Telegram».
Questi profili, rigorosamente nascosti dietro pseudonimi, presentano alcuni tratti comuni, come l’idolatria nei confronti di figure come Elon Musk, Donald Trump e Giorgia Meloni. Nello studio si legge che questi nomi compaiono frequentemente nei contenuti condivisi, accompagnati da commenti positivi e di ammirazione, che riflettono un chiaro allineamento ideologico.
Un altro elemento ricorrente tra i profili analizzati è l’uso peculiare delle emoji. L’uso delle emoji all’interno delle sottoculture dell’odio online è un fenomeno ancora poco esplorato ma molto significativo.
Questi gruppi – attivi su piattaforme come 4chan, Telegram, Reddit, o su canali criptati – utilizzano gli emoji per mascherare messaggi di odio, aggirare i sistemi di moderazione e costruire linguaggi interni che rafforzano il senso di appartenenza.
«Nel nostro caso, abbiamo identificato l’uso ripetuto dell’emoji bersaglio, impiegata come simbolo per identificare, deridere, prendere di mira o “marcare” individui o gruppi per l’attacco», prosegue Liva. Dunque, una sorta di “caccia all’uomo” digitale, di richiamo all’ordine, nella migliore tradizione dello squadrismo. Leggendo lo studio emerge poi un altro dato altamente significativo: l’elevata competenza tecnologica degli haters. Uno dei video più condivisi è il risultato di una tecnica di montaggio molto avanzata che richiede familiarità con complessi strumenti digitali: «Questo suggerisce che gli attacchi potrebbero essere frutto di un sistema coordinato che ne guida e facilita la diffusione», prosegue Liva.
Nella giornata internazionale che celebra la libertà di stampa, non si può non ricordare che l’Italia l’anno scorso è scivolata al 46° posto nell’Indice mondiale della libertà dell’informazione, perdendo cinque posizioni rispetto all’anno precedente. Un passo indietro significativo, che colloca il nostro Paese accanto a nazioni come Polonia e Ungheria.
Il rapporto descrive la situazione italiana come “problematica”, evidenziando l’impatto di alcune leggi promosse dal governo Meloni, con una sottile nota ironica: la Meloni è ufficialmente iscritta all’albo dei giornalisti.
Ma c’è un aspetto paradossale in tutta questa vicenda. In Italia, anche di fronte a gravi minacce online come quelle raccolte dallo studio, non è consentito pubblicare i nomi degli account dei social media, nemmeno se i profili sono chiaramente falsi: «Sebbene la tutela della privacy sia assolutamente essenziale, l’Italia è, in pratica, l’unico Paese coinvolto in questa indagine che non può divulgare completamente i dati raccolti – nemmeno quando le minacce di morte provengono da account anonimi», commenta Frigerio.
Questo è dovuto alle rigide regole sulla privacy, scritte per tutelare la dignità personale, l’identità e la riservatezza, anche negli spazi digitali, ma paradossalmente trasformatesi in strumenti di (impropria) protezione per odiatori e criminali.
In pratica, il giornalista minacciato deve difendersi da solo e il paradosso è quasi surreale: chi parla viene colpito, chi attacca resta invisibile. Su questo punto il verde Bonelli ha annunciato un’interrogazione parlamentare: ««È inaccettabile che per la legge italiana i messaggi di chi minaccia sui social, sotto falso nome, non possano essere resi pubblici. Chiederò al governo quali azioni intende adottare per fermare questa campagna di odio nei confronti di chiunque si occupi di clima e di eliminare la protezione della privacy agli haters. Proteggere chi racconta la crisi climatica è un dovere democratico».
È così. Tutelare chi informa, e in particolare su questi temi cruciali, non è solo questione di giustizia. È una condizione necessaria per la salute della democrazia