Il Messaggero, 3 maggio 2025
Intervista a Pilar Fogliati
Storia di una ragazza che sa imitare qualsiasi accento, ma quando si tratta del suo, finge non la riguardi: «Mi chiamo Pilar che si pronuncia Pilàr. Non c’è uno che indovini e io lascio fare. Il nome straniero proietta antipatia già di per sé, se correggessi anche l’interlocutore passerei per una stronzetta pedante: l’idea non mi entusiasma». Pilar Fogliati ha trentadue anni. Da quasi dieci accumula interpretazioni, premi e regie. È quasi astemia, tende a non ubriacarsi di sé stessa e non ama litigare: «In linea di massima cerco accuratamente di evitarlo. Mi manca sempre la prontezza nel rispondere a tono a un’angheria e forse, chissà, anche il coraggio. Poi magari rimugino e ci ripenso con rabbia, come capita, diciamo a Roma, ai cornuti».
Si è data una spiegazione per questa ritrosia alla discussione?
«Credo si tratti di una speranza della quale non riesco a fare a meno».
Quale speranza?
«Di essere sempre simpatica a tutti, di piacere, di essere accettata. La definizione, in inglese, mi faccia essere contemporanea, è people pleaser».
“Persona che in modo eccessivo cerca di compiacere gli altri, mettendo i propri bisogni e desideri in secondo piano”.
«Sono io. Non è un lato di me che ami tantissimo, ma esiste e ha sicuramente a che fare con il desiderio di evitare il conflitto».
Lo evitava anche da bambina?
«Non credo. Da bambina ero molto energica».
Energica è il sinonimo di iena?
«In una famiglia così larga, un po’ iena devi essere perché imparare a cavartela e a trovare un tuo spazio nel mondo è un imperativo fin dalla colazione. Nelle tipiche risse tra fratelli sulle porzioni a tavola, mi sono trovata, non scherzo, a misurare la quantità di Nesquik che mi toccava con il righello. Io ero effettivamente abbastanza scatenata e sognavo soprattutto mi lasciassero in pace. Ero la terza di tre fratelli. Fino a quando non è nata mia sorella, fuori tempo massimo, sono stata la più piccola e non era una condizione così facile».
Poi?
«Poi, quando avevo già quattordici anni, è arrivata lei, mia sorella Olimpia. La vera svolta. Finalmente potevo vivere la mia adolescenza senza troppi occhi addosso. Non mi troverà nel mucchio di quelli che lamentano con rimpianto: “ero la principessa della casa e poi le attenzioni sono sfumate tutt’a un tratto».
No?
«No. Ero entusiasta. Potevo dar sfogo a tutte le cazzate della mia età».
Ne ha fatte tante?
«Tantissime, però non quelle che sono universalmente reputate tali. Nessun vizio e nessuno stravizio. Qualche follia amorosa, qualche notte fuori casa, qualche fuga, cose così. Abitavo a Mentana, alle porte di Roma, perché mio padre a un certo punto aveva deciso di andare a vivere in campagna».
E non era bello?
«Fino alla prima adolescenza, bellissimo. Gli alberi da frutta, il verde, l’aria pulita, gli animali, l’orto, il giardino sconfinato».
Dopo, in piena adolescenza?
«Un serio impedimento alla voglia sfrenata di stare con i miei coetanei. C’era stato un tempo in cui gli amici correvano numerosi e felici di passare il fine settimana da me a mangiare l’hamburger cotto sul barbecue e quel tempo, intorno ai miei 14 anni, tramontò repentinamente. “Venite a casa mia sabato?”, “Grazie, sei gentile, ma abiti troppo lontano e preferiamo andare al cinema”».
La sua reazione?
«Iniziai a vivere la distanza dalla città alla stregua di un complesso e cominciai a desiderare Roma come si desidera l’impossibile. In fondo, prima che a mio padre prendesse la brama bucolica, tra le case i palazzi avevo vissuto per molto tempo».
E come si raggiunge Roma quando si dista dalla città trenta chilometri e non si ha una macchina?
«Sfiancando i parenti, raccontando bugie, dormendo per giorni dalle amiche portandosi vestiti e libri per la scuola, dando fondo agli espedienti più biechi. Quanto ho rotto le palle ai miei in quel periodo lo sa solo dio».
Scomodiamolo ancora senza essere blasfemi: in quel periodo lei ha dormito anche in convento.
«Eccome. Ero appoggiata dai miei nonni, ma una sera ci litigai per essere tornata in ritardo. All’epoca frequentavo già l’Accademia d’Arte Drammatica, la Silvio d’Amico e ritornare a vivere a Mentana avrebbe significato condannarmi all’eterno ritardo. Così mi industriai e bussai alle suore».
E le suore?
«Mi comunicarono burocraticamente il prezzo della mia permanenza e mi avvertirono che da loro vigeva il coprifuoco. Pagai e per due settimane rispettai rigorosamente le consegne».
Cosa le ha insegnato quel periodo?
«L’adattamento a qualsiasi situazione e la puntualità. Facevo tutto in anticipo, calcolando al secondo i tempi. È un’abitudine che mi è rimasta: in ritardo non arrivo mai».
Il luogo comune pretende che a Roma il ritardo sia la regola, ma lei effettivamente romana non è.
«Sono nata ad Alessandria, in Piemonte. I miei nonni vengono entrambi da quella regione e durante una vacanza di Natale mia madre decise di farmi nascere in un posto che, diceva: «ci appartiene e ci apparterrà per sempre».
Data di nascita, 28 dicembre.
«Nella mia vita, praticamente, non ho mai festeggiato un compleanno. Troppo vicino al Natale, troppo satolli tutti per mettersi ancora a fare baldoria. Quando un paio d’anni fa mi sono finalmente decisa a organizzare una cena con sei amici mi sono sentita come tutti gli altri: una di quelle persone che riesce a organizzare persino le feste».
Entrare in Accademia per fare l’attrice fu una decisione accolta festosamente in casa?
«L’idea di farmi fare teatro, inizialmente, nacque come una punizione. A scuola le cose non andavano benissimo: avevo cambiato liceo e dal classico al linguistico, pur migliorando, le valutazioni inquietanti che nella stessa pagella tenevano insieme i 3 e gli 8 e le oscillazioni che facevano dire ai professori “è intelligente, ma non si applica” si susseguivano. Ora se fossi veramente intelligente non lo so, ma sicuramente so che il libro lo aprivo di rado. Mia madre, per sanzionarmi, mi iscrisse a un corso di teatro amatoriale tenuto da un professore di lettere che era semplicemente un grande appassionato. C’erano cassieri di supermercato, farmacisti, casalinghe».
Uno strano tipo di punizione.
«L’inganno è sempre dietro le apparenze. Il corso si teneva di sabato e di domenica e frequentarlo mi avrebbe impedito di fare lo struscio in centro, perdere tempo, bighellonare. Apparentemente si trattava di una punizione, a conti fatti fu un grande regalo».
Il primo impatto con la realtà?
«Un provino alla London Academy of Music and Dramatic Art, la Lamda, una scuola difficilissima nella quale mi trovai di fronte a ragazzi che avevano una fame, una voglia e una preparazione imparagonabile alla mia. Quel tentativo ebbe l’effetto di uno schiaffo morale. Fu come sentirsi dire: “Ragazzina, svegliati, qui facciamo le cose seriamente”».
Le fece bene questo schiaffo?
«Mi fece benissimo. E bene mi fece l’incoraggiamento del maestro di teatro di cui le parlavo prima, fu lui il primo a parlarmi dell’Accademia d’Arte Drammatica, a prepararmi all’esame, a cercare di capire se ero davvero pronta a tuffarmi in un’avventura dall’esito così incerto. Il provino si svolgeva in tre fasi lunghe tre mesi e come nei libri di Agatha Christie, i partecipanti al banchetto venivano eliminati uno dopo l’altro».
Se fosse andata male aveva un piano alternativo?
«Forse, sicuramente vago. Avrei potuto iscrivermi alla facoltà di Economia o a Storia dell’Arte, ma ero solo una bimbetta di diciotto anni. Non avevo idea di quanto fosse meravigliosa l’Accademia e non avevo detto a nessuno che avrei trascorso l’estate a prepararmi per entrarci. Mi vergognavo, temevo il pregiudizio altrui: “Vuole fare l’attrice? Vuole diventare famosa? Ma chi pensa di essere?”».
Il pregiudizio esiste.
«Una volta, scortati da Anna Marchesini e da qualche ex celebre allievo come Margherita Buy andammo in visita al Quirinale con una delegazione dell’Accademia. Davanti a Giorgio Napolitano, Marchesini prese la parola: “Presidente, vorrei chiederle di abolire quella definizione, mondo dello spettacolo, che veste gli attori di tutte le età e che non significa niente”».
Cosa voleva dire secondo lei?
«Che il rumore di fondo della fama con il raccontare storie attraverso il tuo modo di muoverti, respirare o guardare non c’entra nulla».
Imparò tutte queste cose in Accademia?
«Sono stai i tre anni più belli della mia vita. Quando sono entrata i miei compagni citavano soltanto testi incredibili di autori che non solo non avevo mai letto, ma non avevo neanche mai sentito nominare. Per non rimanere esclusa mi misi a studiare a testa china i grandi, a iniziare da Ionesco di cui capii pochissimo, ma che almeno, senza avere lo sguardo completamente perso di fronte agli altri, potevo nominare senza sprofondare per l’imbarazzo. Furono tre anni intensi che spazzarono via tutto il resto a cominciare dai compagni. Non c’erano più vacanze, domeniche, prospettive normali. Tutto era per il teatro e il teatro rappresentava tutto. Varcai il portone dell’Accademia da fidanzata e, passati tre mesi, di quell’amore non c’era più traccia».
Lei dice di non essere coraggiosa. Lo pensa veramente?
«Penso che più che dal coraggio a volte sia stata tenuta in piedi dall’incoscienza. Ha una potenza enorme, l’incoscienza. È una specie di mantello magico. Ti fa andare avanti senza chiederti perché, ti sostiene, ti sorregge. È una dote che si sposa con l’inconsapevolezza: se sai di esserlo, improvvisamente non lo sei più».
Che mestiere è il suo?
«Un mestiere in cui si dipende sempre dalla scelta e dalla visione di qualcuno. Un lavoro in cui, anche se dirlo sembra retorico, la gavetta non finisce mai».
E le dispiace?
«Non particolarmente. Fino ad ora ho avuto molta fortuna. Durerà? Non lo so. Di sicuro non mi sento arrivata da nessuna parte. Interpreto ruoli molto diversi, partecipo ai film popolari e alle prove d’autore, variare mi sembra un grande lusso e identità una parola scivolosa. L’identità di un attore è un concetto troppo asfittico e troppo astratto. L’identità te la crei, la costruisci con la diversità delle scelte: non ambisco a diventare un monolite».
Qual è la dote che si riconosce?
«L’ironia. In casa non è mai mancata. Mia sorella è molto spiritosa. Mia madre, una donna molto simpatica. L’ironia è un antidoto, una maniera arguta di ridimensionare il dolore e la tristezza, di dar loro un’altra dimensione e un altro spazio».
Walter Chiari dice che il comico è l’unico che interrompe per un istante il filo sempre teso tra noi la morte.
«Quanto ha ragione. A me ridere è sempre piaciuto. Ho avuto i miei drammetti anche io, certo che li ho avuti, ma li ho sempre diluiti con una risata e con la compagnia degli altri. Non ero una che si chiudeva in sè stessa: fin da adolescente sono stata molto socievole ed estroversa».
Cosa la diverte?
«Gli stereotipi. L’universalità dei sentimenti, le frasi dell’amore sempre uguali, per tutti. Su quello si può giocare, ridere, ironizzare. Puoi mischiare il passato e il presente, giocare con le tue esperienze e con quelle degli altri, creare un pezzo comico come si costruisce un puzzle».
Che rapporto ha con il ricordo?
«Mi piace, mi ci cullo e mi ci intrattengo, però non sono una persona particolarmente nostalgica perché la nostalgia a volte mi sembra il più banale dei rifugi e la più semplice delle soluzioni. Non rimpiango epoche che non ho vissuto, cerco di stare in equilibrio nella mia e guardo avanti più che indietro. Ciò che hai alle spalle non lo puoi cambiare comunque».
Dove trova il suo equilibrio?
«Nell’ascolto e nella curiosità. Non mi chiudo nelle mie precarie certezze, cambio idea facilmente, mi confronto. Quando prendo una decisione chiedo sempre consiglio a tante persone diverse».
L’assemblea su una decisione somiglia già a una situazione comica.
«Per me in effetti la comicità è una tenera tragedia che abbraccia più di un individuo. D’incanto, della sfiga, se è generalizzata, si può ridere tutti insieme. Pensi a Chaplin, lì c’è già tutto».
Il primo film che ha visto se lo ricorda?
«So che sembra una battuta, ma fu La corazzata Potëmkin. Mia madre ce lo fece vedere a casa in un sussulto educativo retto dall’illusione che i suoi figli potessero diventare finalmente intelligenti».
Sopravvissuta ad Ėjzenštejn vide anche altro?
«Il primo colpo al cuore fu Un sacco bello di Verdone. Ero molto piccola. L’ho amato senza averne capito le sfumature e crescendo l’ho rivisto più volte ed è diventato uno dei miei film preferiti. Lì c’è un’idea di cinema che mi piace e tiene insieme tutto: malinconia, comicità, dolcezza».
Cos’è cambiato per lei in tutti questi anni?
«Tutto e niente. Sono cresciuta e mi sono scoperta sorpresa, felice e altre volte delusa. Ma io non sono cambiata granché e non mi va di snaturarmi. Continuo a fidarmi degli altri e tendo a credere a quello che mi dicono».
Un giorno, dopo un provino, Paolo Virzì le disse: «sei brava e sei molto intelligente».
«Tornai a casa emozionata e lo raccontai al mio fidanzato di allora. Lui si fece descrivere la scena e poi, secco, sillabò: “Se ti ha detto esattamente queste parole non ti ha preso”. Aveva ragione».
Tutto perdonato?
«Ma certo. Non solo va tutto bene con Virzì, ma anche con me stessa. La regola degli attori è che una volta sostenuto un provino te lo devi dimenticare perché non sai mai quando ti diranno no o sì. Quella volta in effetti, una volta saputo l’esito, ho pianto, ma è stato un unicum e quel piccolo trauma mi è servito. È stato bello, ero piccola, sognavo. Avevo 21 anni e il mio mestiere era poco più di un gioco. Quell’epoca aveva un suo romanticismo e un suo spirito».
È passato?
«Come tutto».
Le dispiace pensare che certi stati d’animo non tornino più?
«No, mi piace pensare che ne arrivino sempre di nuovi».