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 2025  maggio 03 Sabato calendario

La pasionaria nera in lotta per l’Africa

“La donna più pericolosa d’Africa”, “la Pasionaria nera”, la “Eva Perón dell’Africa centrale”, “La musa di Lumumba”: sono soltanto alcuni degli epiteti dispregiativi che Andrée Blouin, eroina dell’indipendenza africana, si guadagnò nel corso della sua attività politica. Nel mondo spaccato in due dalla Guerra fredda il suo impegno per la decolonizzazione fu visto con sospetto e con timore da molti leader occidentali che fecero di tutto per sminuirla e denigrarla. Innanzitutto perché era una donna. Dopo la sua morte nel 1986, con molti paesi africani ormai caduti nella morsa di feroci dittature, Blouin è rimasta vittima anche di un cortocircuito della storia che ha messo la sordina al suo nome e ne ha offuscato l’eredità politica. Al termine di una battaglia legale durata molti anni, sua figlia Eve è riuscita a recuperare i diritti d’autore sulla sua autobiografia e a farla pubblicare in una nuova edizione che si propone di rendere finalmente giustizia a una figura centrale delle lotte di liberazione del continente africano.
Nata nel 1921 a Oubangui-Chari (oggi Repubblica Centrafricana) da padre francese e madre africana, Andrée Blouin trascorse l’infanzia in un orfanotrofio per bambini di famiglie miste dal quale scappò all’età di diciassette anni per evitare un matrimonio combinato. La sua vita dai tratti romanzeschi sarebbe diventata l’affresco di un’epoca destinata a segnare il XX secolo. In My Country, Africa: Autobiography of the Black Pasionaria (Verso Books), Blouin ricostruisce le origini del proprio impegno politico facendolo risalire alla tragica e assurda morte di René, il suo figlio di appena due anni. Nel 1946 l’amministrazione coloniale di Bangui negò le compresse di chinino che avrebbero potuto guarirlo dalla malaria perché il piccolo non era figlio di una coppia mista e quindi non aveva diritto alle cure che allora erano riservate soltanto ai bianchi. «È stata la morte di mio figlio a politicizzarmi», spiega la donna nel suo libro di memorie. «Quel dolore mi fece comprendere in un modo del tutto nuovo il significato del colonialismo in Africa. Per la prima volta mi resi conto fino in fondo che quel male affondava i propri tentacoli in ogni singola fase della nostra vita». Da quel momento in poi, Andrée Blouin si sarebbe reinventata divenendo un’icona del panafricanismo, mettendo le sue grandi capacità di organizzatrice politica e le sue straordinarie doti oratorie a servizio della causa indipendentista prima in Guinea e poi in Congo. Quando Patrice Lumumba formò il primo e breve governo post-indipendenza a Kinshasa nel 1960, Blouin fu nominata capo del protocollo nel gabinetto del compianto leader anticolonialista e diventò la sua prima consigliera, al punto che la stampa li soprannominò la “squadra Lumum-Blouin” quasi a indicarne una forma di simbiosi.
Per i diplomatici e i giornalisti occiden-tali, la presenza stessa di Blouin in quel governo era però la prova che il Congo stava virando verso il comunismo, poiché qualche anno prima la donna aveva lavorato a stretto contatto con il movimento indipendentista di Sékou Touré, nella Guinea filo-sovietica. Poco importava che lei si descrivesse semplicemente come una socialista impegnata nel nazionalismo africano: nell’immaginario di quegli anni era «una donna bellissima ma anche pericolosa, forse la donna più pericolosa di tutta l’Africa», come la definì il New York Times citando un funzionario belga. La stampa internazionale arrivò persino a insinuare che fosse «la cortigiana dei capi di stato africani», non riuscendo a comprendere il grande peso politico che aveva assunto all’interno dei circoli panafricani post-coloniali e il rispetto che nutrivano per lei anche leader rivoluzionari come il ghanese Nkrumah e l’algerino Ben Bella. Il Congo fu tra le diciassette nazioni africane che ottennero l’indipendenza nel 1960, il cosiddetto “anno dell’Africa”. Ma poche settimane dopo il trasferimento dei poteri dal Belgio, la provincia meridionale del Katanga si separò con il sostegno dei consiglieri militari belgi e della compagnia mineraria che deteneva i diritti di concessione nella regione. Lumumba si rivolse agli Stati Uniti ma l’amministrazione Eisenhower respinse la sua richiesta di aiuto: il leader congolese fu allora costretto a cercare l’appoggio dell’Unione Sovietica innescando un conflitto che trasformò il Congo nell’epicentro della Guerra Fredda in Africa. Nel gennaio 1961, appena sette mesi dopo l’indipendenza, Lumumba venne assassinato dai suoi avversari politici con la benedizione di Washington e Blouin fu costretta ad andare in esilio con la sua famiglia. Dopo un periodo ad Algeri visse a Parigi per il resto della sua vita. La sua fede sconfinata nel panafricanismo e nell’obiettivo dell’unificazione culturale e politica del mondo africano non le impedì però di accorgersi delle contraddizioni e dei limiti di quell’esperienza politica. Dalla sua biografia emergono chiaramente anche i suoi timori nei confronti di quello che lei stessa definisce il lato più imitativo del processo di decolonizzazione, in particolare la tentazione di sostituire il potere coloniale con una casta dominante autoctona. Il suo occhio critico non risparmiò neanche lo stesso Lumumba, che fu senz’altro il leader africano più carismatico di quegli anni. Nel libro Blouin lo descrive come un «eroe dei tempi moderni», il cui «nome era scritto a caratteri d’oro nei cieli del Congo», ma anche come un uomo talvolta ingenuo che ebbe la debolezza di voler accontentare troppe fazioni interne al Paese e si allontanò dal Congo mentre le forze nemiche si organizzavano in patria. Ma nonostante una vita intera spesa per la libertà del continente africano, Andrée Blouin è rimasta una figura relativamente poco nota nelle narrazioni storiche che hanno privilegiato i cosiddetti padri fondatori dell’indipendenza africana. Quando nel 1986 si spense a Parigi, sola e perseguitata dalle illusioni perdute, in pochi se ne accorsero perché “la Pasionaria nera” aveva smesso di fare notizia da anni e il mondo – conclude con amarezza sua figlia Eve nella postfazione del libro – accolse la sua morte con indifferenza.