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 2025  maggio 01 Giovedì calendario

Gianfelice Facchetti: “Il Grande Torino ci parla ancora. Il mio destino nel nome di Bacigalupo”

Al posto giusto nel giorno giusto. Dopo aver girato mezza Italia con lo spettacolo “Il Grande Torino. Una cartolina da un Paese diverso”, Gianfelice Facchetti arriva per la prima volta sotto la Mole e la sera di domenica 4 maggio sarà di scena al Teatro Superga di Nichelino. Al cuore interista non si comanda, ma c’è un filo granata che da sempre avvolge e guida la vita del figlio dell’indimenticato Giacinto. «È come una magia che mi accompagna e mi ispira: da bambino sognavo di fare il portiere e quando giocavo a calcio con papà, lui tirava in porta e mi dava il soprannome di Bacigalupo...».
E il destino volle che nel 2005 fosse proprio lei ad interpretare Valerio Bacigalupo nella riuscita fiction Rai sul Grande Torino. Solo una coincidenza?
«Non credo, anche se aver giocato in quel ruolo nelle giovanili dell’Atalanta mi aveva aiutato a prendere la parte. Poi qualche tempo fa ho scoperto di avere in soffitta una riproduzione della sua maglia: io non so perché era lì e da più di trent’anni... Evidentemente era di casa, anche perché con il granata ci sono nato».
Partiamo dalle origini?
«Sono cresciuto a Cassano d’Adda, il paese di Valentino Mazzola, e la squadra per cui giocavo da bambino aveva la maglia granata. E la prima maglia non si scorda mai».
Che cosa diceva papà Giacinto del Grande Torino?
«Erano i suoi ricordi di bambino, quei giocatori erano i suoi miti, ma solo dopo la sua morte ho scoperto che teneva la foto di Virgilio Maroso come una reliquia. Lui aveva tante immagini in casa con avversari o compagni di squadra, ma quella la teneva in un libro ed è l’unica di un giocatore che non aveva sfidato, ma evidentemente amato».
Lei ha avuto come padrino di battesimo Giovanni Arpino e in “Azzurro tenebra” era tra i protagonisti...
«È stata una fortuna e credo che la sua poesia sul Grande Torino sia un vero testamento letterario».
Suo papà era grande amico anche di Andrea Bonomi...
«Una storia nella storia. Veniva a casa nostra il sabato mattina a parlare di affari, ma era stato il capitano del Milan negli Anni ’50 e soprattutto era stato salvato da Valentino Mazzola nel fiume Adda quando erano ragazzini. Al debuttò in A sfidò proprio Valentino e si videro l’ultima volta a Barcellona il 4 maggio 1949: il Toro tornava da Lisbona e stava facendo scalo aereo, lui era diretto a Madrid per un’amichevole».
Perché ha voluto fare un omaggio al Grande Torino?
«Ogni tot quella storia viene a bussarmi... Per il 75° anniversario ho pensato a un podcast che per Rai Play Sound raccontasse quella squadra così unica e speciale, poi è nata l’idea di uno spettacolo teatrale. La storia degli Invincibili appartiene a tutta l’Italia e io sento un legame con questa storia, al netto della professione e della passione per il calcio, ma questo è un richiamo sempre più forte».
Lei ha dedicato molte opere teatrali al calcio: dai vigili del fuoco di La Spezia che vinsero lo scudetto alle “tribù del calcio”, fino a Bundesliga ’44 e Arpad Weisz. Perché non c’è traccia dell’Inter?
«Se ti trovi a parlare di Inter, pensi che sei costretto a parlare di tuo padre. Se lo fai con un libro, è una distanza e una misura, ma farlo da un palco è un po’ troppo e raccontare la tua vita è difficile... Mi piacerebbe narrare l’intera storia del club, a partire dal tema dello straniero che è fondamentale dalla fondazione in poi».
Che cosa la emoziona di questo spettacolo, di queste “cartoline da un Paese diverso”?
«Parliamo di una fede calcistica che è fuori dal comune e non è una storia del passato, ma una che parla ancora. Poi è bello perché ogni volta si aggiunge un pezzettino: anche in posti impensabili c’è qualcuno che si ricorda di quei ragazzi e vuole dirtelo».
Che cosa resta del Grande Torino 76 anni dopo?
«Tanto, a livello di valori ed emozioni. E poi è brace sotto la cenere: qualcosa che vive c’è, anche se devi rovistare e scavare, ma è bello togliere gli anni e farla sentire vicina questa storia che colpisce tutti».
Il Grande Torino ha ispirato centinaia di libri, oltre a decine di spettacoli e film. Perché questa produzione artistica?
«È stata la prima grande squadra del calcio italiano, capace di fornire dieci undicesimi alla Nazionale e di rappresentare tutti. Gli italiani vivevano in una sorta di comunione di destino, per le difficoltà che si vivevano dopo la guerra. C’è poi la parte tragica, ma più vado avanti e più ritengo che sia un grosso torto appiattire tutto sulla mitologia di Superga. È un aspetto importante per il ricordo, giovani che muoiono nella tragedia, ma dentro c’è un’incredibile ricchezza di vita. Buzzati ai funerali scrisse “di questi uomini che arrivavano nelle varie città e risvegliavano qualcosa di eroico nell’umanità stanca”. Loro toglievano i pensieri negativi di quegli anni: erano l’incarnazione della favola».