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 2025  maggio 01 Giovedì calendario

Intervista a Ricky Tognazzi

Ricky Tognazzi è un uomo prodigioso. Alla domanda sul suo bilancio di vita (oggi compie 70 anni) risponde subito, a caldo: «È un bilancio di coppia». Solo per questa risposta meriterebbe l’Oscar dell’anti-machismo, se poi si aggiunge che è il primogenito di un attore gigantesco e che, più degli altri fratelli, per motivi anagrafici, ha vissuto la depressione e la malinconia del tempo che passa del padre, bisogna aggiungere che è un raro esemplare di maschio dell’altro secolo, empatico, fedele, non egocentrico: «Mi sento realizzato, anche se, ogni tanto, avverto un po’ di amarezza, vorrei riuscire a portare a termine più spesso progetti miei, rimasti nel cassetto».
Per gran parte della sua esistenza è stato “il figlio di Ugo”. Le è pesato?
«Mi è anche capitato di essere “il fratello di Gianmarco”, una volta, poi, ho incontrato un tizio all’aeroporto che mi ha detto “che bello incontrarla, lei è il padre di Gianmarco…”. L’ho mandato al diavolo».

Il fardello del genitore celebre può essere ingombrante. Lei come lo ha portato?
«Ho provato un misto di sensazioni diverse. Da bambino mi provocava un grande imbarazzo, andavo dal panettiere a Milano, quello subito diceva ai presenti “sapete chi è questo? Il figlio di Ugo Tognazzi” e io diventavo tutto rosso. Anni dopo, quando ormai vivevo a Roma, mi è capitato di incrociare, al CineTv, una classe intera, uno dei ragazzi mi ha riconosciuto, mi sono buttato sotto la sedia. Solo più tardi ho cominciato a essere orgoglioso di mio padre. E ho anche lavorato tanto per rinnovare la sua memoria».
Fin da ragazzino ha respirato aria di set. Le piaceva?
«Il mio imprinting cinematografico risale alle estati di bambino… la scuola finiva e io andavo da papà, a Torvajanica, ma anche in giro per l’Italia, dove si giravano i suoi film. Passavo le giornate nella roulotte, lo guardavo mentre lo truccavano, facevo amicizia con i macchinisti e gli elettricisti, li vedevo muoversi con destrezza tra pinze e martelli…».
Scegliere il cinema è stato naturale?
«Siamo artigiani, impariamo un’arte ed è logico non metterla da parte, quando ho dovuto scegliere cosa fare da grande, è stato relativamente facile imboccare questa strada. Il mio primo film da assistente alla regia l’ho fatto con Pupi Avati e mio padre era protagonista. All’inizio è stato più facile che per altri, indubbiamente sono stato aiutato, poi, però, se non sei capace non vai avanti. Questo è un mestiere in cui ci si misura sul campo, c’è poco da nascondere».
Poi, 40 anni fa, ha incontrato Simona Izzo. Amore & lavoro. Binomio ideale, ma anche totalizzante.
«Sì, lavorare insieme fa sì che gli anni raddoppino, è come se ne avessimo vissuti insieme ottanta».
Come si resiste?
«Fatichiamo, scopriamo insieme. Il nostro è un rapporto dialettico, regala ogni giorno qualcosa di nuovo.
Spesso e volentieri capita che uno vorrebbe fare nero e l’altro bianco e alla fine, si raggiunga un compromesso grigio».
Litigate spesso?
«Più che altro, soprattutto nelle situazioni professionali, dibattiamo. Non è una lite, ma un modo per confrontarsi, pensandola in modo diverso.
Credo molto in quella frase che, in sostanza, dice “in una discussione, chi perde, vince, perchè ha imparato una cosa nuova”. È un concetto consolatorio, ma anche bello. Le discussioni servono, a imparare, soprattutto se si perde».
E a gelosia come siete messi?
«Siamo gelosi, però Simona è più sincera, lo dichiara. Lo sono anche io, ma lei ribatte “io non ti do motivo”. In realtà neanche io gliene do, a differenza di mio padre sono monogamo, in questo non ho preso da lui».

Firmate un film insieme Francesca e Giovanni Una storia di amore e di mafia (in sala il 15 maggio), dedicato a Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Perché è importante raccontare oggi questa storia?
«Il tempo viene percepito in modo diverso. Quando ero ragazzo sentivo parlare della guerra e mi sembrava preistoria, ai giovani di adesso la vicenda di Falcone e Morvillo fa più o meno lo stesso effetto, alcuni non sanno nemmeno chi erano loro e chi era Borsellino. Il 900, un grande secolo che noi privilegiati abbiamo avuto la fortuna di vivere, per loro è trapassato remoto. Spero che percepiscano il film non solo come la vicenda di due eroi, ma anche come la testimonianza di quanto possa essere importante l’amore».
Sui padri si hanno mille ricordi. Dovesse sceglierne uno?
«Se chiudo gli occhi mi viene in mente Ugo a Torvajanica, in calzoncini corti e piedi nudi, che affetta una cipolla e chiama la sua assistente a gran voce “Nazarena, butta la pasta!”. Sotto i toni rudi, da uomo terragno, da latin lover, era molto affettuoso, aveva una dolcezza leggibile, uno sguardo spesso malinconico, anche se ci ha fatto pure morire dal ridere».
Per esempio?
«Una volta passeggiavamo insieme, io, lui e Simona. Mio padre era già depresso, dovevamo andare a cena a casa di amici e lui continuava a dirci che si trattava di gente molto benestante. A un certo punto Simona lo interrompe e gli fa “però Ugo, pure te sei ricco”. E lui subito, “io non sono ricco, sono un poveraccio che mantiene una famiglia di ricchi"».
Cosa le fa paura?

«Le guerre a pochi centinaia di chilometri da noi, sono quelle le macro-cose brutte. Le altre, a quest’età, riguardano la salute, mia, di Simona, di tutti quelli a cui voglio bene».
Cosa si augura?
«Sono ateo grazie a Dio, come diceva Voltaire, ma la morte di Papa Francesco mi ha colpito molto, così come la reazione del mondo intero. Mi auguro che il prossimo Papa segua le sue orme. È stato l’unico che, senza se e senza ma, ha sempre professato la pace».