Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 30 Mercoledì calendario

Dieci anni di Jobs Act. Cgil: “Oltre mezzo milione di giovani italiani emigrati all’estero”

A dieci anni dal Jobs Act, l’Italia si è infilata in «un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita». L’opposto di quello che si prometteva la riforma del lavoro voluta nel 2015 dal governo Renzi: flessibilità e occupazione stabile. A dirlo è la Cgil in un rapporto realizzato dalla Fondazione Di Vittorio. Rilevante il numero dei giovani italiani emigrati all’estero: 550 mila tra 2011 e 2023, il 43% laureato. «Una strada obbligata per scappare da un Paese in cui il lavoro part-time dei laureati è aumentato di due volte e mezza in vent’anni».
Tutele indebolite
La disamina della Fondazione Di Vittorio è molto severa. A partire da una carrellata di dati e grafici che dimostrano come «giovani, donne, laureati» hanno pagato il prezzo più alto del «declino produttivo del Paese, nei forti divari di genere e territoriali». Il Jobs Act è al centro di questo declino, secondo la Cgil. Perché ha «indebolito le tutele del lavoro a tempo indeterminato e favorito la diffusione di contratti precari e part-time».
In tre quesiti referendari su cinque voluti proprio dalla Cgil, al voto l’8-9 giugno, si punta a correggere alcune tendenze. Ripristinando l’articolo 18, la causale ai contratti a tempo e togliendo il mini tetto agli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole aziende.
I punti principali del rapporto
Dieci anni dopo l’entrata in vigore del Jobs Act (7 marzo 2015) il mercato del lavoro italiano appare più frammentato, meno tutelato e meno inclusivo di quanto promesso.
Tutele – Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ha sostituito il reintegro dell’articolo 18 con un’indennità economica, rendendo più facile licenziare. La minore protezione riguarda circa 3,5 milioni di lavoratori assunti dal 2015 in poi.??
Tipi di contratto – Il lavoro “non standard” (tempo determinato + part-time) è passato dal 22% del 2004 al 28 % del 2024. Quasi il 30% degli occupati dipendenti in Italia oggi è a termine o a tempo parziale. Tra il 2014 e il 2019 la quota di full-time a tempo indeterminato è scesa dal 71 % al 67,9 %. Oggi quasi 5,3 milioni di dipendenti hanno contratti precari e/o orari ridotti, con punte del 30% tra giovani, donne e laureati.??
Occupazione e ore lavorate – Gli occupati dipendenti sono cresciuti di 1,3 milioni dal 2008, ma le ore lavorate sono tornate ai livelli pre-crisi solo nel 2022 a causa dell’esplosione del part-time involontario.??
Geografia e genere – Il tasso di tempo determinato tocca il 20% nel Mezzogiorno (12% al Nord). Il part-time riguarda 2,6 milioni di donne e 0,7 milioni di uomini. Nel Sud l’aumento della precarietà post Jobs Act è stato doppio rispetto al Nord.??
Giovani e istruzione – Per i 15-34enni i contratti a termine sono saliti al 30% (37 % nel picco 2018). Il numero di laureati con lavoro a termine è più che raddoppiato. Il 43% dei giovani emigrati nel 2023 è laureato.??
Flussi contrattuali – Le nuove attivazioni a tempo indeterminato restano intorno a 1,2 milioni l’anno, tranne il picco 2015 dovuto agli sgravi. Esplodono invece i contratti a termine (3,7 milioni nel 2024) e parasubordinati (3,1 milioni). Gli effetti “stabilizzanti” derivano soltanto da incentivi fiscali (2015, Decreto Dignità 2019) o obbligo di trasformazione dopo 24-36 mesi.??
Salari – Tra il 2008 e il 2024 il salario reale medio è sceso del 9% (a fronte di +14% in Germania). La combinazione di lavoro precario, part-time e assenza di rinnovi contrattuali ha ampliato il lavoro povero: un dipendente su dieci, ma quasi uno su tre tra i tempi determinati, è sotto la soglia di povertà.??
Produttività e struttura economica – La de-regolazione non ha rilanciato crescita e innovazione: la produttività per ora lavorata è rimasta stagnante, gli investimenti si sono contratti di 8 punti (2010-2019) e l’occupazione si è spostata verso servizi a bassa qualificazione. Nel 2024 il 61% dei dipendenti opera in micro o piccole imprese, con bassa capacità d’innovazione.??
Polarizzazione professionale – Crescono le professioni intellettuali e, all’opposto, gli addetti a commercio e servizi. Calano tecnici, operai specializzati e impiegati. Nelle fasce intermedie la quota di contratti a termine supera quella a tempo indeterminato, accentuando la diseguaglianza tra “insiders” e “outsiders”.??
Sicurezza – Gli infortuni, in calo fino al 2015, sono poi rimasti stabili, mentre gli infortuni mortali hanno superato quota 1.000 nel 2023. Due casi su tre avvengono in imprese sotto i 50 addetti, spesso in appalto, dove la frammentazione contrattuale impedisce una prevenzione efficace.??
Bilancio complessivo – Il Jobs Act ha innescato un circolo vizioso: più facilità di licenziamento?maggiore precarietà?salari più bassi?minori investimenti e produttività?ulteriore lavoro povero ed emigrazione qualificata. Le misure anti-precariato (Decreto Dignità, incentivi alle assunzioni, Reddito di cittadinanza) hanno prodotto miglioramenti temporanei ma sono state in gran parte superate dalle contromisure dei governi successivi.??
Prospettive – Alla vigilia dei referendum dell’8-9 giugno 2025, i dati mostrano che ridurre il ricorso ai contratti a termine, ripristinare il reintegro contro i licenziamenti illegittimi, estendere la responsabilità negli appalti e introdurre un salario minimo legale sono leve indispensabili per uscire dal circolo vizioso e ricostruire un lavoro stabile, sicuro e dignitoso.