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 2025  aprile 30 Mercoledì calendario

Intervista a Jason Moran

«All’origine degli Stati Uniti ci sono il massacro delle tribù indigene e centinaia d’anni di schiavitù. Da inizio Novecento la musica jazz fa in modo che il palcoscenico sia uno spazio libero, un luogo in cui raccontare una verità». Jason Moran, 50 anni, texano di Houston, pianista di fama globale, chiude stasera all’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto il Torino Jazz Festival.
Cos’è per lei la musica?
«La musica per me è il mondo. Mi ha insegnato molto di più che suonare le note giuste. Ho iniziato da bambino con il metodo Suzuki per imparare la musica e poi blues, gospel, R&B e soul mi hanno arricchito quanto Bach».
E il jazz?
«Ha aiutato me come altri musicisti a trovare un modo per esprimermi fuori dagli schemi grazie all’improvvisazione di gruppo».
Quando ha scelto questo genere?
«È stato il jazz a scegliermi. A 13 anni non mi piaceva il piano e pregai i miei genitori di smettere. Poi ho provato il boogie-woogie e questo lo ha reso più divertente. A quel punto ho scoperto il mio idolo Thelonious Monk, di cui i miei genitori suonavano Round Midnight».
Monk cos’ha rappresentato per lei?
«È il mio pianista preferito sia per il modo di suonare sia per la creazione di nuovi ritmi e armonie. Sapeva interpretare le canzoni dei musicisti a cui si ispirava, come Duke Ellington e Fats Waller, portando il suo stile e il suo slang in tutto ciò che faceva».
E tra i contemporanei chi è il suo preferito?
«Mi piace il pianista Craig Taborn, una mente brillante».
Che pezzo suonerebbe per convincere qualcuno a cui non piace il jazz?
«Una bella canzone è Moanin’ di Bobby Timmons del 1958, interpretata da Art Blakey e dai Jazz Messengers. Contiene il botta e risposta, il blues, le esplosioni, lo swing e tutta la spavalderia dell’epoca».
Come definirebbe il suo jazz?
«Non lo definisco, la parola è insufficiente rispetto all’ampiezza della musica».
Quanto il jazz è stato e resta parte della cultura afroamericana?
«Totalmente. La verità è che bisogna riconoscerne la fonte per comprenderne il codice. Occorre domandarsi come mai ogni musicista anche di una piccola band ottenga un assolo. Non accade in nessun altro genere. Penso sia perché il jazz ha permesso agli afroamericani di esprimere la propria opinione liberamente. Una libertà non sempre riconosciuta fuori dal palcoscenico».
Cosa pensa di stili più giovani come rap o trap?
«La musica evolve. Sono cresciuto negli anni ’80 e l’hip-hop ha sempre avuto la mia anima. Per il resto io suono il piano, così come uno chef specializzato in cucina francese non prepara ricette asiatiche».
A Torino celebra la figura del musicista-soldato James Reese Europe, salpato per il fronte francese nel 1917, qual è la sua eredità?
«Lui rappresenta il Big bang del genere. Il modo in cui espanse il suono del primo jazz in un ensemble divenne il punto di riferimento delle band anni ‘20. Un musicista instancabile, sempre in cerca di miglioramenti, direi “il” musicista».
Come contestualizza questo lavoro nell’America di Trump?
«È la dedica a un musicista che ha sfidato tutti fino ai suoi ultimi giorni. La storia è un ciclo. Per comprendere la causa di una musica guardiamo sempre al suo periodo. I sintomi della società si manifestano nell’arte, che è il luogo dove lottiamo con le emozioni del tempo. Ciò che mi piace dello studio della storia è che così nulla sembra nuovo».
Il jazz è ancora uno strumento di sopravvivenza?
«La domanda più grande è: perché l’America è sempre un paese travagliato? È una questione lunga, ma occorre fare i conti con il modo in cui è stata fondata».
Prima di Europe ha lavorato sul pianista Fats Waller, come è cambiato il ruolo del pianoforte nel jazz?
«Lui è stato un grande intrattenitore oltre che un musicista fenomenale. Negli anni ’30 il pianoforte era come Spotify e il pianista aveva il compito di rendere divertente la festa. Col tempo la musica si è evoluta e il pianista ora può desiderare un pianoforte o una tastiera sintetizzata, scegliendo quel che vuole di una lunga storia, anche se per me il piano resta la migliore mappatura della vita sui tasti».
Da pianista qual è lo strumento più jazz di tutti?
«Le persone. Servono loro per suonare».

Lei collabora a molti progetti artistici, che legame trova col jazz?
«Il jazz è collaborazione con gli altri e questo mi porta ad andare oltre ai musicisti verso storici, autori, registi, artisti, coreografi, chef, poeti. Confrontarsi è il sale della vita». —