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 2025  aprile 30 Mercoledì calendario

Thomas Schael: "Io, tedesco innamorato dell’Italia voglio salvare la Sanità pubblica"

«Mi piace andare a Berlino, una città che amo, e passeggiare nei pressi del Charité, l’ospedale universitario: nessuna frenesia, tranquillità e modernità». «Lascio le cose in uno stato migliore di come le ho trovate e si ricordano sempre dove sono passato, nel bene e nel male». «Dico la mia: se qualcuno non è d’accordo mi faccio da parte, mai rimasto disoccupato, c’è sempre qualcuno che mi cerca». Capelli brizzolati, fisico imponente, sorriso guardingo, battuta pronta: uomo poliedrico, Thomas Schael, commissario della Città della Salute di Torino, è allergico allo status quo.
Chi è Thomas Schael?
«Una persona sempre curiosa, di tutto: sono la sintesi di molte esperienze».
Tedesco e innamorato dell’Italia.
«Italianizzato, Sono nato in Vestfalia, 63 anni fa. Ho sempre amato il Mediterraneo, sono sempre venuto in vacanza in Italia: dalla Toscana, sono un ciclista, mi piace pedalare lungo le colline, all’Isola d’Elba, dove puoi combinare lo sport con il mare. Ho apprezzato tutte le bellezze di questo Paese. E la mia seconda moglie è italiana».
Manager di lungo corso, anche...
«Da vent’anni lavoro nella Sanità pubblica, ma vengo dal privato».
Prima ancora, giornalista...
«Professionista, per otto anni, in un giornale poi fallito: i miei ex colleghi sono rimasti senza lavoro, io mi ero preso un anno sabbatico con l’impegno dell’editore di essere assunto al termine. Come giornalista mi sono occupato della nascita dei Verdi e del movimento antinucleare in Germania, il mio ambito era il rapporto tra società e innovazione. Per questo ho studiato ingegneria e mi sono laureato in cinque anni, senza laurea nel giornalismo non fai niente. Mi sono iscritto anche ad altre Facoltà: Sociologia industriale, Legge ed Economia. Cento esami in cinque anni. A un certo punto ho capito che fare mi interessava più che scrivere».
Le sue esperienze internazionali?
«Prima in Inghilterra, sei mesi a studiare la trasformazione dei Docklands di Londra. Sei mesi dopo avevo già appuntamento con Federico Butera, dirigente Olivetti, bisognava trasformare la catena di produzione dei computer. Dopo dovevo andare a Parigi, ma non ho più lasciato l’Italia».
La vera passione, però, è la Sanità. Perché?
«Perché quella pubblica è il sistema più complesso al mondo: bisogna dare una risposta a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale, istruzione e provenienza. Peccato che gli italiani non riconoscano il valore del loro sistema sanitario, siamo tra i primi cinque Paesi al mondo».
Un sistema sempre più fragile...
«I sistemi privatistici, in primis quello americano, prevedono che il sistema garantisca un minimo di servizio, ma non uguale per tutti, l’erogatore può scegliersi la clientela secondo la capacità di reddito: costano di più e hanno un esito sanitario peggiore. Noi, che finanziamo la Sanità con il gettito fiscale e garantiamo il servizio a tutti, anche se siamo sottofinanziati siamo più efficienti, spendiamo meno, corriamo meglio. Ma per essere efficienti bisogna stare alle regole: legalità e trasparenza».
Sottofinanziati: colpa del governo?
«Non accuso nessuno. Se anche mettessimo qualche miliardo in più, nei prossimi anni avremo un finanziamento stagnante, sempre che si recuperi l’inflazione».
Meglio parlare di un sistema in affanno?
«I motivi di affanno non mancano: il Pil non cresce abbastanza, invece crescono l’aspettativa di vita e le malattie croniche, diminuisce la natalità, non abbiamo le risorse per pagare i nostri professionisti alla pari di altri Paesi. Se il sistema è privato, uno può dire: ti pago il doppio perché non servo tutti, guardo a quello che mi dà un reddito. Però, sono ottimista».
Nonostante tutto?
«Siamo tra i pochi Paesi che con il Pnrr stanno costruendo un’assistenza territoriale alternativa agli ospedali».
Un auspicio, per ora...
«Se non hai visioni, non puoi cambiare il mondo. Ovviamente serve un cambio culturale: nei prossimi dieci anni non avremo personale sufficiente per garantire l’assistenza con l’attuale modello organizzativo».
Il nuovo modello?
«La Sanità moderna è multidisciplinare, integrata. E attrattiva, per chi fa ricerca come per i privati. Altrimenti perdi gli uni e gli altri. Il nuovo Parco della Salute di Torino, in concorso con un Ateneo e un Politecnico storicamente forti, può diventare la Silicon Valley delle Life Sciences: cura, ricerca e produzione a livello nazionale e internazionale».
Come il Charité?
«Un riferimento per la Città della Salute, abbiamo già rapporti di collaborazione. E in Italia, Padova. Da una parte serve un’astronave, diciamo così, capace di rispondere alla domanda di assistenza e innovazione, dall’altra la Sanità territoriale. Per come la vedo io, tutto quello che non è complessità e alta innovazione dovrà stare fuori dal Parco della Salute, e andare sul territorio».
Un altro cambio di paradigma.
«Bisogna superare le resistenze: il cambiamento fa sempre paura».
La sua azione per riportare la libera professione negli ospedali sta già spingendo parecchi luminari ad optare per l’extra moenia...
«Non mando via nessuno, siamo in un Paese democratico, ma le scelte altrui non devono nemmeno essere un vincolo: i giovani non sono meno bravi, specialmente se provengono da una grande Scuola di Medicina come quella torinese».
Avanti tutta, quindi?
«Devo garantire a chiunque il diritto alla salute, come prevede la Costituzione, in tempi ragionevoli. Chi vuole scegliersi chi lo opera paga, ma non è accettabile se lo fa per superare le liste di attesa. Per questo il decreto Schillaci dispone che negli ospedali l’attività in libera professione non può superare quella in regime istituzionale: si chiama equità».