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 2025  aprile 30 Mercoledì calendario

Così la Cambogia precipitò nell’inferno creato dai Khmer

Se proviamo a domandare a una persona qualsiasi, soprattutto a un giovane, cosa sia stato il genocidio cambogiano, difficilmente troveremo una risposta esauriente. Eppure, si è trattato di uno dei più feroci e diffusi genocidi della storia, costato la vita ad oltre due milioni di persone. In questi giorni ricorre il cinquantenario di quei fatti che si consumarono tra l’aprile e il maggio del 1975, dopo la rovinosa ritirata degli americani dall’Indocina. Il 17 aprile i khmer rossi entrano a Phnom Penh, iniziano i 4 anni di tenebre che saranno interrotti dall’invasione vietnamita del 1979. Le avanguardie dei khmer sono formate dai guerriglieri-bambini, dodicenni e tredicenni allevati dal partito nel culto della crudeltà e della violenza gratuita. Il primo ordine del nuovo regime è la totale evacuazione della capitale, una città di due milioni di abitanti come Phnom Penh viene svuotata in appena 24 ore. Uomini, donne, bambini, infermi, mutilati, devono lasciare le loro case senza condurre con sé neanche gli effetti personali.
L’unica memoria rilevante di quello che accadde in Cambogia cinquant’anni fa, accanto ad alcuni libri per specialisti, è uno straordinario film Urla nel silenzio, (The Killing Fields), di Roland Joffé, vincitore di tre Oscar e altri prestigiosi riconoscimenti.
La città, per i comunisti cambogiani, è il simbolo della «perversione capitalista», i khmer rossi propugnavano una forma di comunismo agreste e primitivo nella cui concezione non c’è spazio per le città con le loro debolezze, e per questo vanno rivoltate come «pattumiere».
Al centro di questa vicenda storica la figura inquietante di Saloth Sar, al secolo Pol Pot, venerato leader dei comunisti cambogiani, assieme ad Hitler e Stalin, il più feroce assassino del Novecento, teorico di un’assurda utopia. Ettore Mo, giornalista inviato più volte in Indocina, lo definì «uno degli uomini più scellerati della storia».
Quella cambogiana è un’antica civiltà, densa di storia, prima regno del Funan, quindi impero Khmer, che dall’attuale Cambogia estendeva il suo dominio sulla Thailandia, il Laos e il Vietnam meridionale. Fu una delle più importanti civiltà asiatiche, la cui ricchezza è testimoniata dal sito archeologico di Angkor. Nel 1863 inizia l’esperienza coloniale francese, sotto forma di protettorato, che lascia formalmente in piedi la monarchia, la Cambogia diventa un pezzo dell’Indocina francese. La Francia e Parigi, dove Pol Pot vive alcuni anni, sono anche la culla del comunismo cambogiano, che affonda le radici più in un giacobinismo radicale che nel culto dell’apparato sovietico.
Dopo la conquista del potere, il «Fratello Numero Uno», nome con il quale si fa chiamare Pol Pot, detta incontrastato la linea della Cambogia comunista: il popolo deve vivere in comuni agricole, non deve esistere lavoro intellettuale, ma solo quello manuale: la rivoluzione deve essere radicale. Avvocati, medici, ingegneri, farmacisti, vengono passati per le armi, non è ammesso il commercio e tanto meno l’industria. Basta portare dei banali occhiali per essere definiti évolué (letteralmente evoluti ma nel senso di intellettuali) e quindi essere eliminati. Il nemico è una categoria oggettiva, non è individuato in base a responsabilità individuali ma per l’appartenenza a una categoria.
La Cambogia viene organizzata in comuni agricole, che poi sono campi di concentramento, nelle quali viene distribuita la popolazione, spesso smembrando le famiglie. L’ossessione di Pol Pot è la purezza rivoluzionaria. Attua come punto fondamentale del suo programma la distruzione della famiglia, indicata come struttura della società borghese. Chi vuole sposarsi deve fare domanda al partito che provvederà all’assegnazione di una moglie e di un marito; è vietata l’intimità familiare. L’adulterio è punito con la morte, i bambini appena dopo lo svezzamento sono strappati ai genitori e affidati al partito per farne devoti comunisti.
Tutto è mosso dal sospetto, gli stessi khmer organizzano finti movimenti di opposizione per poi arrestare e trucidare chi si lascia coinvolgere, basta una parola fuori posto per andare a morte: i fratelli denunciano i fratelli, i figli i genitori, non sono ammessi sentimenti giudicati frutto della contaminazione borghese. Tremende le modalità di eliminazione, raccontate dai pochi scampati e da carnefici pentiti. Prigionieri assassinati sull’orlo delle fosse comuni che loro stessi avevano scavato, decapitati, eliminati a colpi di bastone. La legge Khmer stabiliva che il terzo ritardo al lavoro, venisse punito con la morte.
A Trong Bath sulla sommità di una collina sorgeva una fornace dove i nemici di classe venivano bruciati vivi. Le ossa carbonizzate venivano, poi, sparse nei campi come concime. Alla periferia di Phnom Penh sorgeva il campo S-21, il vecchio liceo Tuol Sleng, specializzato nell’eliminazione di bambini che i khmer rossi uccidevano con il coltello. Alle pareti della scuola, sono affisse, oggi, le foto di tutti i minori eliminati. «Stiamo facendo qualcosa che non è mai stato fatto prima nella storia dell’umanità», affermò, nel 1977, il braccio destro di Pol Pot, Ieng Saryil, in un colloquio con il giornalista italiano Tiziano Terzani. È una rarissima testimonianza. «Era allora difficile figurarsi che cosa davvero volesse dire», commentò Terzani.
Nei 4 anni del terrore la Cambogia si chiuse al mondo, nessuna sede diplomatica, nessuna possibilità di entrare nel Paese, nessun giornalista. Solo con l’invasione vietnamita del ’79 cominciarono a filtrare le prime notizie sul genocidio comunista. Nel cosiddetto «Museo del Genocidio cambogiano» sono state ricostruite con prove inoppugnabili le vicende più strazianti. Sono state individuate e scavate 23745 fosse comuni contenenti 1,3 milioni di vittime di esecuzioni dirette. Le cifre di questo orrore sono discordanti, tra il milione e mezzo e i tre milioni e trecentomila morti, comunque impressionanti. Si ipotizza che il 60 per cento fu vittima di eliminazione diretta, altri perirono per malattie e carestia.
Pol Pot morirà in circostanze misteriose, forse per mano di alcuni suoi compagni, altri suoi stretti collaboratori saranno condannati dal Tribunale speciale della Cambogia, nato a seguito di un accordo con le Nazioni Unite. Saranno condanne tardive e prive di effetti sostanziali quando i protagonisti erano vecchi, malati o già morti.
Il genocidio in Cambogia, nonostante le dimensioni e la brutalità, resta una pagina di storia strappata. Di questo cinquantenario si parla un po’ in Francia per i rapporti storici del lungo protettorato ma è una rievocazione circoscritta a pochi cultori di storia. Molti, soprattutto in Italia, tacciono anche per imbarazzo: i khmer furono accolti e raccontati come liberatori, come «eroici compagni» spesso celebrati nelle piazze e pubbliche manifestazioni. Coltivare la memoria di questi fatti significherebbe ammettere i propri errori.