Avvenire, 30 aprile 2025
Sangre y tierra: il tennis in spagnolo
Nel tennis, come nella corrida, c’è un’idea antica di onore e sacrificio. Un’idea di sangue e terra, che si scrive con il rosso della terra battuta e si incarna in una genealogia di uomini temprati alla polvere e alla luce feroce del sole. Così è nato il tennis spagnolo: latino, fisico, tecnico. Una scuola di gladiatori e poeti, dove ogni punto è un’epopea e ogni scambio una corrida. La Spagna ha coltivato campioni votati al sacrificio. La loro arena è sempre stata la terra rossa – rossa come la sabbia di Barcellona, come il mantello del torero, come la polvere che si alza nell’arena del Real Club de Tenis, in Catalunya. Qui, il tennis non è mai stato solo uno sport: è un destino.
Con il tramonto di Rafael Nadal (che ha da poco lasciato le competizioni) e l’addio di David Ferrer – uno degli uomini più stoici del tennis, mai vincitore di uno Slam ma esempio assoluto di tenacia – sembrava che la saga del tennis iberico stesse per finire. Il movimento internazionale si faceva sempre più rapido, più sintetico. L’erba e il cemento dettavano legge, e la terra battuta diventava un regno minore, un’arena per specialisti, quasi nostalgici di un tempo passato: “la rema-ta”, il palleggio asfissiante da fondo campo, sembrava essere una scelta tattica superata. Così nel momento in cui la Spagna rischiava di uscire di scena, ecco l’aurora: Carlos Alcaraz. Il ragazzo di El Palmar è un meteorite che riaccende la fiamma. Ha il fuoco di Rafa, la leggerezza di Ferrero (oggi suo coach), e qualcosa di suo: un tennis più aggressivo, moderno, capace di vincere anche a Wimbledon. La terra non è più una prigione, ma un trampolino. Alcaraz sembra essere l’unico a poter davvero contrastare il numero uno al mondo del tennis, l’italiano Jannik Sinner.
Fino a domenica – e prima di Roma e Parigi – si gioca a Madrid, il torneo Mutua Open, che è oggi uno dei palcoscenici più glamour del tennis mondiale. Un masters 1000 fra i più belli del circuito, come impiantistica, come clima, come mondanità. La Caja Mágica, tra vetro e cemento, ospita i duelli dei nuovi gladiatori, ma resta legata a quell’idea di fiesta e duello che permea l’identità spagnola, anche se quest’anno Alcaraz è assente per infortunio (ieri Lorenzo Musetti ha battuto Stefanos Tsitsipas, mentre Matteo Berrettini si è ritirato contro Jack Draper). Poi c’è Barcellona, con il Trofeo Godó, che è la patria spirituale di Nadal. Qui, ogni anno, la gente si stringe a ridosso del campo come in una plaza de toros, per assistere alla danza rossa dei loro campioni. E ancora, Valencia, Marbella, Mallorca: tornei minori, ma pieni di magia. Luoghi dove i giovani imparano il mestiere, dove il pubblico è vicino, partecipe, viscerale. Dove ogni scambio è un atto d’amore. E dietro i campioni ci sono i maestri. Toni Nadal, zio e mentore, ha plasmato Rafa con la ferocia dell’antico educatore. Juan Carlos Ferrero ha fatto da ponte tra generazioni, diventando il padre sportivo di Alcaraz. In Spagna, le accademie sono templi: la Bruguera Academy, la Equelite di Villena, la Nadal Academy di Manacor. Non si insegna solo tecnica: si insegna carattere. E la prima regola è una: «Non mollare mai». Oggi il tennis spagnolo vive un nuovo inizio. Dietro Alcaraz ci sono Pablo Llamas Ruiz, Martin Landaluce, il ritorno di Alejandro Davidovich Fokina – un altro “torero” inquieto. Non sarà un’epoca facile: la competizione globale è feroce, la terra battuta ha perso il suo trono assoluto. Ma il cuore, quello no, non si spegne. Perché la Spagna continuerà a produrre guerrieri. Continuerà a scrivere le sue epopee sul rosso della terra, con la stessa passione con cui un poeta canta il duello e un torero entra nell’arena. Perché il tennis spagnolo è un’idea eterna di resistenza. E finché ci sarà un campo polveroso, un ragazzo con la racchetta e il sole che batte forte sulla fronte, la leggenda continuerà. Sangre y tierra. Vita e morte. Ma sempre con onore.
Le radici del tennis professionistico spagnolo affondano negli anni Ottanta, quando il mondo era ancora dominato da serve & volley e i giocatori di fondo (baseliner) venivano trattati come artigiani in un’epoca di cavalieri, li chiamavano “gli arrotini” per quel loro diritto in top spin. In quel contesto, Manolo Orantes aveva già aperto la strada: un rovescio a una mano, il primo a vincere uno Slam per la Spagna nel 1975, alzando il trofeo degli US Open, un “pallettaro” micidiale, comunque, capace di tenere il suo avversario in campo per ore. Ma è negli anni Novanta che nasce davvero l’identità moderna del tennis iberico, con una generazione di terribili corridori, scolpiti più dalla sofferenza che dal talento. Carlos Moyà, balearico come il futuro re Rafa, è il primo a portare il numero uno al ranking ATP nel 1999. Bello, atletico, con un dritto esplosivo, Moyà è stato il precursore del glamour tennistico spagnolo: vince il Roland Garros nel 1998, ma resta sempre un po’ romantico e selvatico, come un gitano con la racchetta. Dietro di lui, si forma una vera armata. C’è Juan Carlos Ferrero, detto “El Mosquito”, per quella leggerezza nel muoversi e colpire, finalista a Parigi nel 2002 e campione nel 2003. Poi Alex Corretja, tattico, riflessivo, mente lucida del tennis spagnolo, due volte finalista al Roland Garros, eroe della Davis Cup 2000. Accanto a lui, Félix Mantilla, sobrio e resistente, David Sánchez, Albert Costa (trionfatore a sorpresa nel 2002 a Parigi), Francisco Clavet, Tommy Robredo, Guillermo García-López, Nicolás Almagro, Albert Montañés. Sono tutti figli di una stessa madre: la terra. La loro infanzia è fatta di campi spelacchiati, ore sotto il sole, dritti e rovesci arrotati e corse infinite. In Spagna non ti insegnano a vincere facile. Ti insegnano a sopravvivere, a conquistare il punto centimetro dopo centimetro, goccia di sudore dopo goccia di sangue. Il rovescio, spesso a due mani, è scolpito nella roccia, giocato in spinta ma sempre con attenzione al piazzamento. Il dritto è il marchio di fabbrica: carico, liftato, esasperato nel movimento, fatto per mangiarsi la terra. Poi arriva lui. Rafael Nadal. E cambia tutto. Nadal è l’incarnazione definitiva del tennis spagnolo, e allo stesso tempo la sua rivoluzione. È terra e metallo, umiltà e potenza. A 19 anni alza la Coppa dei Moschettieri, e inizia un dominio sulla terra battuta che travolge ogni resistenza. Vince 14 Roland Garros – un numero mistico, da leggenda greca più che da cronaca sportiva. Ma non si ferma lì, vince tutti gli slam, la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Rafa trasforma la scuola spagnola: al rigore aggiunge il carisma, alla fatica l’epica. Nel 2008, con Ferrer, Verdasco, López e Robredo, Nadal guida la Spagna a una nuova era di trionfi in Coppa Davis, riportando l’antico spirito della squadra a livelli eroici. La Davis, per gli spagnoli, non è una competizione tra nazioni: è un duello d’onore. È questa l’eredità che ha raccolto Alcaraz, la tradizione che si oppone a Sinner.