Il Post, 29 aprile 2025
Il re è nudo su Instagram
Il Tg1 di sabato sera dice che a Roma, per i funerali del papa, c’erano, quasi al completo, “i grandi della Terra”. È una di quelle espressioni giornalistiche consolidate, “già fatte”, che si dicono e si ascoltano, in genere, senza farci troppo caso. Vuol dire i re, i presidenti, i capi di governo. I grandi della Terra, quelli che decidono, che reggono le sorti della storia.
Questa volta però – forse perché pochi secondi prima era stato inquadrato Milei: niente di personale, ma fatico a concedergli qualsiasi forma di grandezza – l’espressione non passa via liscia. Nella mia testa produce un intoppo. Suona per quello che è, una forma retorica pigramente ripetuta; ma anche per quello che non riesce più a essere: un’attribuzione di autorevolezza, di prestigio, di regalità che si fatica a concedere agli attuali reggenti del potere mondiale (almeno nella media. Ci sarà pure qualche staterello guidato da persona specchiata, geniale e con un prodigioso intuito per il futuro. Segnalatelo, per cortesia, sarebbe di grande conforto).
Al solito, vale il dubbio del boomer: non sarà che questi qui, genericamente intesi e fatte le debite eccezioni, non sono poi così peggiori di quelli che li hanno preceduti, e a me sembrano tali solo perché più si avanza con gli anni più si tende a idealizzare il passato? Poi penso a Trump, a Milei, a come parlano, al loro circondario familiare e amicale (detto “staff di governo” nell’esagerata speranza che lo sia), ai loro modi grevi; al modesto profilo della gerenza europea di von der Leyen, alla sua freddezza contabile e alla sua inconsistenza ideale; alla Germania dopo Merkel, al Regno Unito dopo Brexit; e prende forma il contro-dubbio. No, non sono io che ragiono da anziano che ha perduto sintonia con i tempi. È un dato oggettivo: nella crisi generalizzata delle classi dirigenti, la politica non solo non sfugge alla regola, ma incarna ai massimi livelli la minima autorevolezza.
Sul tema – crisi della rappresentanza, caduta del concetto di autorità e catastrofi apparentate – sono state scritte intere biblioteche, e qualche miliardo di articoli. E dunque non pretendo di promuovere ad analisi attendibile la mia sensazione che “grandi della Terra” non vada più detto, e sarebbe meglio ricorrere a definizioni più sobrie. Voglio però introdurre, nell’infinita discussione, un elemento forse non così subordinato, e tanto meno futile. Tra un “grande” del passato (diciamo: fino agli anni Ottanta del Novecento) e un “grande” in carica c’è una differenza macroscopica, strutturale per chi fa il mestiere della politica: l’esposizione mediatica.
Difficile quantificare la differenza: uno a dieci? Uno a cento? Uno a mille? Pensate alla frequenza con la quale parlavano in pubblico, o al pubblico, un de Gaulle, un De Gasperi, un Kennedy; a quando l’intervista di un leader o un suo discorso in parlamento erano momenti rari e dunque solenni della vita politica; a quando nessun papa parlava con nessun giornalista; a quando (era il 1986) il segretario del Pci Alessandro Natta accettò di andare in tivù a parlare del più e del meno con Raffaella Carrà (che comunque al cospetto di qualche conduttore odierno sembrava Madame de Staël) facendo indignare mezzo partito; a quando le parole del potere erano controllate, limate, quasi sempre protocollari e spesso eufemistiche e autocensurate.
E adesso pensate alla nube immensa che la parola pubblica, per via dei social, è diventata, in aggiunta alla moltiplicazione mediatica “classica” delle immagini e delle parole. Non c’è giorno e non c’è evento anche trascurabile che non meritino qualche frasetta e nei casi più sciagurati qualche cuoricino o uno di quegli emoticon che farebbero sembrare puerile anche Mosè, o Tamerlano, o Leonardo da Vinci. Pensate alla costante presenza delle telecamere e dei microfoni che lastricano, come un pavé sdrucciolevole, ogni singolo passo, anche il più insignificante, il più scontato, dei politici e della politica.
Beh: come conservare prestigio e autorevolezza nell’inflazione irrimediabile delle parole e delle immagini? Nella quantità incontrollata la qualità, anche quando c’è, si perde, diluita come una goccia in un lago. E il legittimo sospetto (che tutto sommato va a scagionare, almeno in parte, i “grandi” odierni) è che se sottoposti a uguale pressione mediatica anche i “grandi” del tempo che fu sarebbero sembrati dei cialtroni, o delle personcine litigiose, o degli incompetenti.
Per esempio. Trump ha appena scritto una clamorosa fesseria, forse la millesima, a proposito del mancato ingaggio di un giovane quarterback di football americano. Siccome il ragazzo è figlio di un campione, l’idea di Trump è che “i suoi geni sono eccezionali”, dunque non può che essere un campione anche lui, dunque i club che non lo assumono sono gestiti da “stupidi”. Sarebbe come dire che il figlio di Maradona non può che essere un campione come il padre, sulla base di una ereditarietà del talento che, purtroppo per i figli di Maradona e consimili, semplicemente non esiste.
Beh, magari se de Gaulle, da buon francese, fosse stato tifoso di rugby e avesse avuto a disposizione i social, avrebbe cliccato una identica cretinaggine a proposito del figlio di un mediano di mischia: “Lo voglio in Nazionale! Non può che essere bravo come il padre!”. Guadagnandosi in breve la stessa fama di impiccione incompetente che rende così desolante la scena pubblica odierna. Se il vaglio mediatico di un tempo, rigorosissimo, fosse stato lo stesso colabrodo dei giorni nostri, magari anche fior di statisti sarebbero apparsi nella loro nuda inconsistenza. Segno che, tra tanti aspetti mortificanti, la rivoluzione mediatica del Terzo millennio potrebbe avere almeno il merito di avere inverato la speranza millenaria di rivoluzionari e anarchici: il re è nudo! Resta da dire che anche rivoluzionari e anarchici, al vecchio boomer, non sembrano più quelli di una volta. E si ricomincia daccapo…
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