Avvenire, 30 aprile 2025
Maduro ha capito il gioco. E fa il difensore dei migranti
L’America, intesa come continente e non come singolo Stato, non è più la stessa da quando il presidente salvadoregno Nayib Bukele ha alzato la mano per trasformare il suo Paese nel cortile penitenziario degli Stati Uniti. Così facendo Bukele ha evitato umiliazioni simili a quelle del colombiano Gustavo Petro – tra i primi a piegarsi al dispotismo trumpiano – ricevendo anche un primo acconto di 6 milioni di euro, ma ha aperto nuove fratture in un continente già diviso.
La ragione principale sono i 252 venezuelani deportati dagli Usa, reclusi nel Paese centroamericano, per i quali domani si terrà una mobilitazione a Caracas. A convocarla è stato il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, che ha espresso la propria indignazione per il «sequestro» di una bambina di due anni finita nell’elenco dei deportati. «La riscatteremo e crescerà nella sua patria», ha detto il successore di Chavez nella trasmissione Con Maduro +, chiedendo «il sostegno del popolo del Venezuela» anche per garantire «il ritorno dei 252 venezuelani rapiti». Sul banco degli imputati ci sono anche la Corte penale internazionale dell’Aja, che secondo Maduro «non agisce», e «l’ultradestra venezuelana» di Maria Corina Machado. Maduro ha capito bene il gioco: le deportazioni Usa rendono persino lui un paladino dei diritti umani, o almeno portano sul suo terreno. Tant’è che il presidente salvadoregno ha recentemente formalizzato, tramite la propria Cancelleria, la proposta di uno scambio alla pari: gli oltre 250 venezuelani deportati per altrettanti prigionieri politici di Caracas (tra cui una sessantina di cittadini stranieri imprigionati dopo le elezioni presidenziali del 28 luglio). La proposta è stata respinta dalle autorità venezuelane, che l’hanno definita «cinica» senza far menzione dei prigionieri politici tuttora reclusi nel Paese. Caracas, attraverso il procuratore generale Tarek William El Saab, ha anche definito Bukele «il più fedele esponente del neofascismo del ventunesimo secolo» accusandolo di perpetrare, insieme agli Usa, e di imitare le «spregevoli pratiche dei nazisti». Ne consegue quindi l’irrigidimento delle posizioni: deportati e prigionieri politici, tirati in ballo come pedine di scambio, permangono dietro le sbarre. E togliendo Bukele – l’altra pedina – guardiamo in faccia Washington che calpestando i diritti umani elimina la distinzione, sempre più sottile, tra la propria democrazia e gli autoritarismi.