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 2025  aprile 29 Martedì calendario

Lenin, il mistero del testamento

Vladimir Lenin morì il 21 gennaio del 1924. Aveva cinquantatré anni. Nell’ultimo periodo di vita si era ammalato gravemente: il 25 maggio del 1922 era stato colpito da un primo ictus che paralizzò la parte destra del suo corpo; il 16 dicembre di quello stesso anno, dopo un faticoso processo di riabilitazione, subì un secondo attacco. Fu allora che capì di avere davanti a sé un limitato periodo di vita e decise di lasciare al partito che aveva guidato nella Rivoluzione d’ottobre del 1917 uno scritto contenente molti ammonimenti e qualche suggerimento per il futuro. Complice la moglie, Nadezda Krupskaja, decise che quel testo dovesse esser letto soltanto dopo la sua morte. Che lo colse, come s’è detto, due anni dopo. Nel corso di quei ventiquattro mesi, è probabile che qualcuno abbia «ritoccato» quell’elaborato. Quantomeno questa è l’ipotesi avanzata da Luciano Canfora in Il testamento di Lenin. Storia segreta di una lettera non spedita in uscita il 6 maggio per i tipi di Fuoriscena. Ipotesi peraltro già formulata dallo stesso Canfora in un suo precedente volume, La storia falsa. Dall’antica Grecia al Novecento, i grandi casi di falsificazione storica attraverso i secoli (Bur). Ma il nuovo libro è assai più circostanziato.
La lettera-testamento di Lenin – resa nota ai vertici del Partito comunista russo quattro mesi dopo la morte del capo bolscevico e poco dopo «rivelata» al mondo intero sulle colonne del «New York Times» – aveva una postilla contenente giudizi denigratori nei confronti di tutti i principali candidati alla successione. In particolare, era spietata contro Josif Stalin del quale chiedeva esplicitamente la rimozione da segretario. Ma Stalin, a dispetto di quei giudizi o più probabilmente perché aveva goduto dell’opportunità di conoscerlo in anticipo, già da qualche tempo si era attivato per tener ben salde nelle proprie mani le redini del partito.
Doveva però fare i conti con un rivale, Lev Trotzkij, a cui Lenin, pur definendolo «il più capace», rinfacciava, in uno strano inciso, il «non bolscevismo». Ed è su questo inciso che, a ben argomentata opinione di Canfora, «si annida l’intervento testuale praticato da Stalin». Quantomeno il fondato sospetto che ci sia stato. Non va dimenticato, scrive lo storico, che Stalin aveva accesso, tramite le segretarie di Lenin, ai manoscritti appena dettati, dal momento che il Comitato centrale (di cui era segretario) lo aveva specificamente incaricato di tener d’occhio «la corretta gestione della persona di Lenin da parte dei medici». E di controllare «il rispetto, da parte dell’infermo, dei limiti da loro prescritti». Insomma, prosegue Canfora, «l’interferenza era ben “legittimata” dalle circostanze e dai ruoli, che mettevano Stalin in una posizione particolarmente favorevole ai fini del controllo su Lenin». Anche «su altri piani» oltre quello sanitario. Ed è già stato dimostrato, all’inizio degli anni Novanta da Jurij Buranov, un intervento manipolatorio di Stalin con l’inserimento nella lettera di alcune parole apparentemente poco rilevanti.
Nel caso in questione l’ipotesi è che Stalin abbia aggiunto (o modificato) qualcosa a proprio vantaggio. E a svantaggio di Trotzkij. Laddove Lenin cita, contro Grigorij Zinov’ev e Lev Kamenev, l’«episodio di ottobre» aggiungendo a mo’ di attenuazione: «ma esso tanto poco, forse, lo addebitiamo loro a colpa personale». E ancora: «quanto il non-bolscevismo a Trotzkij». Parole contorte e oscure. Che meritano qualche delucidazione. A Zinov’ev e Kamenev Lenin rinfaccia non solo di essersi opposti nei giorni decisivi dell’ottobre ’17 al piano per l’immediata conquista del potere, ma di aver reso nota tale loro posizione sul giornale menscevico «Novaia Gizn». Facendo sì che una decisione segretissima – quella del colpo di palazzo – fosse resa di pubblico dominio e con ciò mettendo a rischio l’intera operazione. Lenin in quei giorni s’era infuriato al punto da chiedere «l’espulsione dei due crumiri». Poi, dopo la conquista del Palazzo d’Inverno, l’ira era rientrata. Ma l’episodio gli era rimasto impresso e così in punto di morte pareva voler sconsigliare di riporre una qualche fiducia in quei due.
M a la frase che li riguardava era scritta in modo ambiguo, tale da poter essere intesa in due modi diversi. Come se Lenin volesse assolverli dicendo «non è una loro colpa personale». Oppure come se intendesse aggravare l’accusa scrivendo «non è una colpa personale, bensì politica». In realtà quella frase conteneva una minaccia nei confronti di Zinov’ev e Kamenev per far sì che, resi vulnerabili, si schierassero dalla parte di Stalin. Cosa che i due fecero all’istante. Stalin a fine maggio del ’24 rassegnò le dimissioni (come preteso dalle ultime volontà di Lenin) e il partito unanime respinse la sua richiesta. Ma le parole, che si pretendeva fossero state dettate in extremis da Lenin, intendevano soprattutto richiamare alla memoria la circostanza che Trotzkij aveva aderito al partito bolscevico solo nel luglio del 1917. Questione, nota Canfora, ormai sepolta e resa irrilevante dal ruolo primario assunto da Trotzki nella rivoluzione e dopo. Quel dopo in cui, da fondatore e comandante in capo dell’Armata Rossa, aveva sconfitto l’esercito dei controrivoluzionari bianchi. Trotzkij, gli riconosce lo storico, fu grande organizzatore militare nella guerra civile, capace, come comandante, della massima durezza. Non «ebbe esitazioni» per quel che riguardava la rivolta di Kronstadt (marzo 1921). Per le sue capacità di comando e per l’efficacia dei suoi interventi, spesso ripresi dai giornali europei ma anche da quelli statunitensi, «fu ritenuto, dagli avversari occidentali della Russia sovietica, persino più rilevante, e quindi più temibile, di Lenin».
Ne è consapevole anche Stalin. Per questo usa contro di lui quella strana accusa di «non bolscevismo». Oltretutto l’espressione in termini letterali è, secondo Canfora, «un non senso». Sembra significare infatti che ancora nel 1924 Trotzkij si caratterizzi per il suo «non bolscevismo». Al più – prosegue lo storico – ci si poteva aspettare che Lenin volesse ricordare a tutti che c’era stato un tempo in cui Trotzkij non aveva fatto parte del partito bolscevico. Ma è evidente che le parole «il non bolscevismo di Trotzkij» intendevano insinuare che quell’uomo non soltanto era stato ma era rimasto un «non bolscevico».
È proprio la formula adoperata, «il non bolscevismo» (anziché, ad esempio, «il suo passato menscevismo») che secondo Canfora suscita sospetto. È detto male se vuole intendere «il periodo in cui non era bolscevico», visto che il «non bolscevismo» intenderebbe una «perdurante condizione». È detto ancora peggio se vuole riferirsi alla passata militanza menscevica dal momento che non la definisce con esattezza ma solo in forma negativa (anche un «cadetto» o un «essero» poteva essere definito un «non bolscevico»).
La prova dell’interpolazione è dunque evidente. Così «come – in un certo senso – ammirevole è l’abilità con cui essa è stata realizzata». In modo «da non apparire in troppo stridente contrasto con la precedente definizione (“il più capace”) e dunque tale da indebolire l’operazione stessa».
Trotzkij, quando il testo fu reso pubblico, non si accorse dell’insidia di quel passaggio tant’era entusiasta del fatto che Lenin gli aveva rivolto un complimento e aveva negato al suo rivale il diritto di successione. Ma Stalin era ormai in sella e alla fine di quello stesso anno sferrò un secondo colpo tirando fuori la «prova» di una cospirazione trotzkista contro Lenin. Una cospirazione che veniva da lontano. Si trattava di una lettera di Trotzkij scritta nel 1913 a un menscevico georgiano in cui Lenin veniva accusato di «menzogna» e «falsificazione».
La lettera, ritrovata nel 1921 negli archivi dell’Ochrana, aveva scarsissimo valore. Era riconducibile – ha scritto Ezio Mauro nello straordinario La mummia di Lenin (Feltrinelli) ——a «una delle tante liti di frustrazione tra fuorusciti». Ma quando Stalin la rese pubblica, Trotzkij si rese conto che contro di lui era partita un’offensiva volta a metterlo fuori gioco una volta per tutte. L’uso che Stalin fece di quella lettera – scrisse Trotzkij in La mia vita. Tentativo di autobiografia (Mondadori) – «appartiene alle più grandi frodi della storia». Ma, frode o non frode, funzionò. Da quel momento, ricorda Mauro, contro di lui si aprì un fuoco di fila di accuse: «antileninista», «frazionista», «bonapartista», «deciso a dividere il partito», «pronto a derubare i contadini», «disposto a schierare i giovani contro i vecchi bolscevichi».
La lotta tra Stalin e Trotzkij (ma sarebbe più corretto dire: di Stalin contro Trotzkij) durò altri tre anni fino all’ottobre del ’27 quando i due si affrontarono in una riunione del Comitato centrale per l’ultima volta. In quel momento Stalin ritirò fuori l’ultima lettera di Lenin. Se ne accorse il giornalista del «Corriere della Sera» Salvatore Aponte – al quale Canfora rende ampio omaggio riportandone interi brani di corrispondenza – che così tradusse la celebre frase: quanto «all’episodio di Zinovief e Kamenef, nell’ottobre ’17, non può considerarsi una casualità e noi ne facciamo loro troppa poca colpa, come rimproveriamo troppo poco a Trotzki il suo non-bolscevismo». Questo era il senso che il dittatore voleva si leggesse tra le righe del testo manipolato. Ad Aponte toccò il compito di renderlo esplicito.
C’è da aggiungere che in quei giorni (cadeva il decennale della Rivoluzione d’ottobre) si ebbero a Leningrado delle strane contro manifestazioni di cui Trotzkij cercò di impadronirsi. Se ne accorse Curzio Malaparte. Ma la storia di quel tentativo fallito di golpe contro Stalin, sostiene Canfora, «deve essere ancora scritta». Dall’intera vicenda, Malaparte – in Tecnica del colpo di Stato (Adelphi) – trasse la seguente conclusione: «Stalin è il solo uomo di Stato europeo che abbia saputo profittare della lezione dell’ottobre 1917»; «se i comunisti di tutti i Paesi d’Europa debbono imparare da Trotzkij l’arte di impadronirsi del potere, è da Stalin che i governi liberali e democratici debbono apprendere l’arte di assicurare la difesa dello Stato contro la tattica insurrezionale comunista, cioè contro la tattica di Trotzkij».
Trotzkij, pur costretto da quel momento all’esilio, resterà negli incubi di Stalin. Annota il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels nel Diario 1938 (Mondadori): «Il nostro trasmettitore radio clandestino dalla Prussia orientale alla Russia desta enorme scalpore; opera in nome di Trotzkij e dà del filo da torcere a Stalin; i rossi sono alla disperata ricerca della fonte». Stalin non si darà pace fino a quando, nel 1940 (mentre era già impegnato nella Seconda guerra mondiale), non riuscirà a far uccidere Trotzkij in Messico da un suo sicario.
Trotzkij morirà senza essersi accorto del fatto che quelle accuse di «non bolscevismo» contro di lui erano state inserite nell’ultima lettera di Lenin da una mano estranea. Non se ne accorgerà neanche nel 1932 quando tornerà sull’argomento con l’articolo «A proposito del testamento soppresso di Lenin» che fece pubblicare due anni dopo sulla rivista «New International». L’abilità di chi le aveva inserite (Stalin o uno dei suoi) era stata tale che un uomo, pur animato da un rancore definitivo contro il nuovo dittatore dell’Unione sovietica, non notasse le incongruenze di quel testo. E si concentrasse sulla mancata pubblicazione delle «ultime volontà» e, forse, sull’ipotesi che ne esistesse una versione inedita a lui più favorevole. Tra l’altro secondo il già citato lavoro d’archivio di Buranov – compiuto negli anni Novanta, cioè dopo la fine dell’Urss – Stalin aveva fatto pubblicare 13.500 copie del testamento. Compreso il poscritto. Poche, senza dubbio. Ma tali da non consentirci di affermare che quella lettera sia stata «soppressa».
Le stranezze in realtà c’erano già, e ben visibili, nella parte edita. Le notò molti anni dopo Edward H. Carr – in La morte di Lenin. L’interregno (1923-1924) (Einaudi) – e manifestò stupore al cospetto di un testo che «suonava come avvertimento, ma non indicava una soluzione». Sotto questo aspetto, sempre secondo Carr, quello scritto vergato da Lenin «era inferiore a ciò che il partito aveva imparato ad attendersi dal suo capo». Ma, bisogna riconoscerglielo, il primo a fare questa osservazione era stato, sul «Corriere», Aponte allorché, dopo aver messo in rilievo come Lenin fosse stato esplicito nel diniego a Stalin del diritto di successione, aveva al tempo stesso squalificato «gli altri possibili eredi». E si era chiesto: «È questa la maniera di far testamento?». Ottima domanda. Che imponeva un’ulteriore e più accurata esegesi del testo.