Robinson, 27 aprile 2025
Rimarrò sempre il figlio timido di Suso e del cinema
Sospetto che la timidezza sia lo scudo che l’ha protetto dall’ingombrante peso di due famiglie importanti. Masolino d’Amico – 85 anni, traduttore, critico teatrale, scrittore ed ex professore universitario – è il testimone involontario di un’epoca ricca di personaggi irripetibili.
Qualche anno fa pubblicò, per Sellerio, un libro di incontri con persone che definì speciali. E tali erano, nei fulgidi ricordi narrati dall’autore. Raccontava di gente che aveva frequentato la casa dei genitori, Suso Cecchi d’Amico e Fedele d’Amico, incroci di un’aristocrazia terrestre che avrebbe primeggiato nel cinema e nella musica. Di Suso Cecchi d’Amico, oltretutto, uscirà a breve un Millennio Einaudi con le sue sceneggiature (La fortuna di essere donna, a cura di Caterina d’Amico e Francesco Piccolo).
Che ricordo hai di tua madre?
«Una persona spiritosa, concreta e innamorata di suo marito, Fedele d’Amico. Il quale non amava il cinema ma tollerava con rassegnazione e un pizzico di curiosità quel mondo che girava intorno a lei. Oggi irripetibile, perché legato agli anni Cinquanta e Sessanta».
Sei nato a Roma in piena guerra.
«Nel 1940. Malgrado le bombe e i rastrellamenti credo di essere stato un bambinetto felice. Non dico un’infanzia felice, a quel tempo improbabile, ma una felicità a scaglie, da assaporare di tanto in tanto come il formaggio, allora rarissimo da trovare sulle tavole».
C’era parecchia povertà.
«Di cui abbiamo goduto abbastanza. Soprattutto quando mio padre dovette ricoverarsi per quasi due anni in un sanatorio svizzero. Aveva contratto la tubercolosi in Africa. E quando nel 1945 partì per la Svizzera, lasciò la moglie e due figli piccoli».
C’è un carteggio a questo riguardo tra tua madre Suso e tuo padre Fedele.
«Fogli che abbiamo ritrovato dopo la morte di mia madre. Lei gli scriveva quasi tutti i giorni. Erano lettere lunghe e allegre, piene di aneddoti, scritte per l’uomo che amava. Ma al tempo stesso raccontavano che cosa fosse Roma immediatamente dopo la guerra».
Che città vive Suso?
«In ginocchio, poverissima, dove era difficilissimo procurarsi il cibo. La mamma dovette inventarsi qualcosa per guadagnare dei soldi. Era amica di Mario Soldati, Ennio Flaiano, Renato Castellani. Gente che aveva gravitato intorno alla Cines, diretta negli anni Trenta da mio nonno Emilio Cecchi. Così, quando nel 1945 a Roma cominciarono a girare i primi filmetti, alla mamma fu offerta l’opportunità di collaborare alle sceneggiature.
Scoprì di essere brava».
Cosa aveva di particolare?
«Intanto era molto spiritosa e intelligente e poi le piacevano moltissimo le persone. Chiunque, dopo un quarto d’ora che l’aveva conosciuta, le raccontava la storia della propria vita. Provava un’enorme curiosità pergli altri. Non era retorica, possedeva talento e buon senso. Prima della guerra si era impiegata al ministero del commercio estero come dattilografa. Tutta la mia infanzia l’ho passata sentendola che batteva a macchina le sceneggiature».
Lavorava in casa?
«Sì, erano i vari Flaiano, Zavattini, Castellani a venire da lei. Capitava che nelle pause di lavoro giocassero con me e mia sorella Silvia. Mi sembrava tutto molto normale, anche il fatto che Flaiano per divertirci improvvisasse delle poesiole. Poi la domenica, soprattutto da grandicello, mi capitava di andare a pranzo dal nonno Emilio e lì nel pomeriggio venivano a fargli visita alcuni personaggi importanti del mondo della cultura».
Chi?
«Nei taccuini di mia nonna, che mia figlia Isabella ha curato, tutto quel mondo è descritto benissimo».
Tua nonna era Leonetta Cecchi Pieraccini.
«Era pittrice. Il suo salotto era frequentato da Cardarelli, Pascarella, Moravia e la Morante, Montale e Gadda, Soldati e Ungaretti e poi Longhi, Bartoli, Falqui e Praz. La nonna invitava a pranzo o a cena, poi annotava conversazioni e pettegolezzi. A me capitava di osservare quel mondo di artisti e letterati».
Ne eri intimorito.
«Intimorito no, ma ero sicuramente molto timido. Lo sono ancora nonostante i miei 85 anni. Non ho mai aspirato, forse perché inadatto, a occupare il centro della scena. Oltretutto non credo di essere mai stato una persona interessante. Mi è bastato nella vita capire tre o quattro cose per andare avanti».
La più importante?
«Che il mondo degli adulti è molto complicato».
Tu ne fai parte.
«Con il segreto desiderio di restare un po’ adolescente».
Accennavi a Mario Praz, ti sei laureato con lui.
«Gli chiesi la tesi ed essendo amico del nonno non me la rifiutò. Ma era sempre scocciato».
Su cosa ti laureasti?
«Gabriele Baldini, anglista anche lui, mi suggerì l’argomento: le ambientazioni nel teatro di Shakespeare. Andò bene, il lavoro piacque a Praz che mi propose di trascorrere un anno all’università di Dublino. Feci il viaggio con la mia Morris Oxford. Era il 1963. Lavorai tutto il tempo sull’estetica di Oscar Wilde, allora pochissimo noto in Italia. Nel 1965 Praz mi spedì a Edimburgo. Prima di partire sposai Benedetta».
Intendi Benedetta Craveri.
«Sì, aveva 22 anni e io 25. Trascorremmo un bellissimo anno a Edimburgo. Quando tornammo a Roma avevo il problema di cosa avrei fatto: un po’di università a Cassino, tre anni a Pavia e poi Vittorio Gabrieli mi chiamò a Roma. Non lo conoscevo, ma ascoltò una mia lezione che deve averlo favorevolmente colpito».
A parte l’università hai tradotto e scritto di critica teatrale.
«Mi consentivano di mantenere un buon tenore di vita, cosa che lo stipendietto universitario – non ero ancora ordinario – non mi permetteva. Guadagnavo bene soprattutto traducendo i copioni di possibili film americani. In vari momenti della mia vita ho lavorato per Mastroianni, Zeffirelli, Visconti, Sergio Leone».
Per Mastroianni cosa facevi?
«Marcello era molto richiesto da Hollywood. Ma lui un po’ per pigrizia un po’ perché non conosceva l’inglese si sottraeva ai loro inviti. Poi un giorno esasperato mi disse: “Rispondi che sarei disposto a interpretare uno sceriffo zoppo e sordo”. Arrivò un copione con quel personaggio.
Ovviamente lo rifiutò».
Sergio Leone invece provò l’avventura americana.
«Si era stancato degli spaghetti western e cominciò a immaginare un film sul mondo dei gangster. A me era capitato tra le mani un libro che gli passai. Era Il padrino. Immaginai fosse perfetto per le storie che aveva in mente. Dopo qualche settimana chiamai per sapere cosa pensasse del romanzo di Mario Puzo. Non gli interessava e la cosa finì lì. Sergio in quel periodo stava lavorando a C’era una volta l’America. Passarono alcuni anni. Una sera ci incontrammo a una cerimonia a New York dove c’erano scrittori e registi. Il padrino di Coppola nel frattempo era diventato un successo planetario. Sentii Sergio parlare bene del film e del libro. Allora gli chiesi perché aveva rifiutato di farlo. Vuoi la verità? mi disse, e poi confessò: “Non l’ho mai letto!”».
Hollywood invece non fu una bella esperienza per Visconti.
«I produttori americani avevano accettato di finanziare Il Gattopardo. Si aspettavano un film tipo Via col vento.
Quando lo visionarono ci restarono malissimo. Non somigliava in niente a quello che avevano immaginato.
Pensando al mercato americano lo stravolsero completamente».
Visconti come reagì?
«Fu inorridito da quel trattamento. Ma anche sorpreso perché vide la copia del film rimaneggiato solo la sera della prima a New York. Tornò a Roma il giorno dopo rifiutandosi di incontrare la stampa americana. Solo quando il film arrivò in Inghilterra, nella versione stravolta, mi chiese di scrivere una lettera alTimes di Londra in cui sfogava tutto il rammarico per l’oltraggio subito. Purtroppo non gli fu possibile assistere al giudizio entusiastico che la critica americana avrebbe espresso vent’anni dopo per l’originale».
Visconti morì nel 1976, il sodalizio con tua madre fu lungo. Che ricordo hai di lui?
«Gli davo del lei pur chiamandolo Luchino. Era autorevole, talvolta imperioso, competente in tutto quello che faceva. Almeno nel suo mondo: il teatro, il cinema, l’opera lirica. Ma al fondo credo fosse un timido.
Amava e ammirava gli attori con cui lavorava, sapendone ricavare il meglio».
Tu racconti del contrasto però con Anna Magnani.
«Magnani oltre a essere una donna gelosa era sospettosissima e quindi capace di vedere complotti ovunque. Visconti l’aveva diretta magnificamente in Bellissima e la considerava un’attrice superba. Il caso volle che l’anno in cui era presidente di giuria al Festival del cinema di Venezia, premiasse con la Coppa Volpi non lei, che era in concorso con un film modesto, bensì Maria Schell. Averle preferita quest’ultima mandò la Magnani su tutte le furie. Da quel momento ruppe ogni rapporto con lui. Arrivò al punto di tormentare mia madre, la sola con cui oltretutto non ha mai litigato, chiedendole di smettere di collaborare con Visconti. Non c’era verso di farla ragionare. Il culmine fu raggiunto quando seppe che il “conte di m…” – così lo aveva ribattezzato – aveva scelto Maria Schell nel ruolo di protagonista nelle Notti bianche».
Molto amico della Magnani era Alberto Sordi. Lo
descrivi come un uomo posseduto dai demoni.
«La cosa impressionante di Sordi era il coraggio, la sfacciataggine. Agli inizi era pronto a fare qualunque cosa pur di ottenere un ruolo in un film. Aveva una vena di follia. E poi gli scherzi di cui era capace, soprattutto le imitazioni al telefono. Rifaceva la voce di Amedeo Nazzari, tormentando la Magnani e Camerini. Oppure, con la erre moscia, si spacciava per un tal Raimondino del Gaizo e di notte perseguitava la contessa Mimì Pecci Blunt».
Hai respirato cinema, tradotto grandi scrittori ma non ti sei mai posto mete ambiziose.
«Non ho diretto film né scritto romanzi. Temo di non avere molta fantasia. Non so raccontare. O meglio, se avessi tra le mani la storia di qualcun’altro, potrebbe funzionare. La fantasia se uno non ce l’ha non se la può dare. Questa mancanza, paradossalmente, mi ha aiutato».
In che senso?
«Mi ha messo al riparo dalle tante sciocchezze che si dicono e si scrivono in nome dell’immaginazione».
Ritieni di essere in credito con la vita?
«Di ciò che mi è accaduto non ritengo nessuno responsabile. Sono quello che sono, nel bene e nel male, solo grazie a me. Non ho avuto veri maestri e ti confesso che non mi dispiace essere giunto alla mia età armato di queste modeste convinzioni».
È come se tu avessi preso in contropiede i tuoi privilegi.
«I privilegi non li condanno. Ma preferisco i meriti. E quelli te li devi guadagnare. Ma è dura. Devi lottare, anche contro i tuoi principi, per superare situazioni non semplici. Soprattutto nel mondo del cinema. Una volta vennero a pranzo da mia madre Martin Scorsese e Fellini.
A un certo punto Scorsese domandò a Federico perché non stava più lavorando. E Fellini chiese a me di spiegargli che per fare un film doveva ogni volta mettere d’accordo quattro “gangster” diversi. Ecco, io non avrei mai potuto convincere qualcuno a farmi fare qualcosa. Il mondo è troppo brutale. Non ho mai promosso nulla di ciò che ho fatto. Immagino sia un difetto. So che è sbagliato, ma l’ho imparato da vecchio».
Non te ne rammarichi?
«Credo che mi sia congeniale. Sicuramente avrò perso delle occasioni ma non me ne sono accorto. Invece, senza scalpitare, mi è capitato di realizzare cose belle. Perciò non ho rimpianti. Alcuni tra i miei amici di gioventù, diversamente da me, hanno fatto cose importanti per la cultura. Roberto Calasso ha primeggiato nell’editoria, Carlo Ginzburg nella storia. Eravamo ragazzetti di 16 o 17 anni. Compresi allora che la vita forgia in modi diversi. Ma oggi, alla mia età, non ho più il dovere di chiedermi come sarebbe andata».