Robinson, 27 aprile 2025
Stanley Tucci: Pane al pane vino al vino
Cos’ha scoperto di nuovo in questo viaggio, che parte da Firenze?
«Ogni volta che vengo in Italia imparo qualcosa. Siamo stati alle cave di marmo a Carrara, lo desideravo da anni. Mi affascina la storia del lardo: è semplicemente grasso, ma viene stagionato in un modo che seguono da oltre 500 anni. Stagiona nel marmo, con sale ed erbe, sei mesi, un anno, e diventa una delle cose più deliziose mai assaggiate. Lo mangiavano gli scalpellini, anche Michelangelo, quando lavorava nelle cave. Gli altri lo butterebbero via, ma gli italiani no. Ho seguito tutto il processo, ho scoperto che si usa un tipo preciso di marmo di Carrara, meno poroso. Sono solo un nerd, ma trovo affascinante il lardo di Colonnata».
Mai assaggiato qualcosa che non le è piaciuto?
«Sì, ma ho finto che mi piacesse davanti alla telecamera. A volte ci sono belle sorprese. Ho fatto colazione con il lampredotto, il quarto stomaco della mucca, bollito con erbe e verdure. Amo la trippa, le interiora non mi spaventano, ma questa idea mi faceva un po’ senso… Però volevo provarla per raccontarne la storia, e l’ho fatto. Una delle cose più buone che abbia mai mangiato. La mia famiglia la proverà. Sennò, divorzio».
L’obiettivo della serie?
«Raccontare storie, raccontare l’Italia e sfatare i miti: che sia sempre soleggiata, che tutti siano sempre felici, che ci siano solo pizza e pasta. Non è così. È un Paese molto più complesso. E poi stavolta ci siamo presi più di tempo. Alziamo l’asticella: più spazio per la storia, la cultura. C’è una connessione più profonda tra le storie che raccontiamo».
È molto preciso nei dettagli sul cibo e un accanito osservatore.
«Sono cresciuto così. Mio padre è un artista, mia madre una cuoca straordinaria. Ogni giorno mi insegnavano a guardare le cose in un certo modo: la luce, l’architettura, i quadri, persino camminando per strada. Avevo dodici anni quando siamo venuti in Italia, a Firenze, nei musei, nelle chiese, ci insegnavano a notare le cose che altri ignorano.
Vale anche per la cucina: ogni ingrediente deve essere giusto etrattato nel giusto modo».
Qual è oggi l’aspetto più importante nel presentare il cibo al pubblico televisivo?
«È come recitare. Devi solo dire la verità, mostrare ciò che succede: lasciamo che sia anche un po’ disordinato, che ci siano errori. Rompiamo la quarta parete. Quello che vogliamo davvero vedere è la connessione: tra la persona e il piatto, e tra il piatto e il contesto storico, politico. Sono i partecipanti a dirci quale sia la storia, io sono solo un tramite. Non sono uno chef. Sono una persona che ama il cibo. E mi interessa davvero vedere come le persone fanno le cose, specie quando le fanno bene».
Cucinare è anche un modo per esprimere le proprie emozioni?
«Sì. Quando studi recitazione fai spesso esercizio sulla memoria sensoriale: immaginare che il caffè sia caldo, rievocare situazioni attraverso i sensi ti collega alle emozioni vissute. Ognuno di noi ha un senso primario: per alcune persone – e io sono cresciuto così – il gusto e l’olfatto sono dominanti, per loro il cibo è una chiave emozionale potentissima».
Pensa a un nuovo film o una serie fiction sulla cucina?
«No. Big Night l’ho scritto con mio cugino e diretto con un amico. Non ho mai voluto rifarlo. Con il tempo, sento di voler raccontare storie in modi diversi. Questa serie è, in un certo senso, il seguito di Big Night.Scrivere libri di cucina è un altro modo di raccontare. What I ate in one year— il mio libro – è un diario alimentare. Non contiene quello che ho mangiato: attraverso il cibo parla del tempo che passa».
C’è qualche piccola cosa che non le piace dell’Italia?
«Sì. Due piccoli esempi un po’ irritanti. Uno è quando si chiedeun’indicazione. È imbarazzante, perché la spiegazione dura mezz’ora e uno pensa: “Potevo già essere arrivato”. E se di persone ce ne sono due, lasciamo perdere. Uno dice: “Deve andare di qua”, e l’altro: “No, no, dall’altra parte”. E poi iniziano a conversare. Tu te ne vai e loro neanche se ne accorgono. E poi il traffico, in generale. Un tizio mi disse a Roma anni fa, quando stavo girando un film: “In Italia, il semaforo è solo un suggerimento”».
Cosa ha imparato a evitare?
«Russell Norman mi ha consigliato di evitare i ristoranti con grandi menu lucidi. Io aggiungo quelli con le foto dei piatti».
La serie è incentrata su produttori primari, agricoltori, venditori artigianali. Quanto sono minacciati dalla modernizzazione?
«Molto. In America è veramente straziante. Qui, con le normative della Ue, la qualità è superiore. Senza dubbio i grandi conglomerati stanno cambiando il modo in cui le persone mangiano, ma in un supermercato italiano comune trovi ancora cose che in America o Inghilterra non vedi neanche in un negozio di nicchia».