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 2025  aprile 27 Domenica calendario

Ma com’è strana la Casa Bianca in Tv

Non si può certo dire che oggi la Casa Bianca fittizia della tv sia avara di drammi. In Zero Day, l’ex presidente George Mullen (Robert De Niro) scopre la fonte di un attacco informatico devastante. In Paradise, l’inetto neopresidente Cal Bradford (James Marsden) si assume la responsabilità dell’umanità dopo un’eruzione vulcanica. In The Residence, una cena di Stato diventa una scena del crimine. Eppure, guardando queste ultime serie tv a sfondo politico, sono colpito dalla stessa, assillante sensazione. Penso che sia tutto sbagliato. Mi sembrano troppo normali. Non solo le fiction televisive non possono competere con lo spettacolo chevediamo nei tg, ma sempre più spesso sembrano operare in un universo parallelo.
Storicamente i presidenti televisivi – Jed Bartlet inWest Wing, David Palmer in 24, Fitzgerald Grant inScandal – tendono a condividere alcuni tratti familiari. Si preoccupano di dare un’apparenza di stabilità e normalità. Trattano le forze dell’ordine e le agenzie di intelligence federali come parte di un sistema da gestire, non come nemici interni da sconfiggere. Fanno dichiarazioni misurate. Sgridano, esplodono, ma a porte chiuse. Hanno persino un’estetica: una fredda formalità che parla di potere tranquillo senza ostentazione. Confrontateli con la nostra realtà. Il presidente Trump si scontra con l’ucraino Volodymyr Zelensky, un alleato nominale, davanti alle telecamere in diretta e termina l’alterco dicendo: «Sarà grande televisione». Rinomina il Golfo del Messico, attacca il Canada – come nel film South Park: Bigger, Longer and Uncut – e mette in scena uno spettacolo promozionale della Tesla sul suolo della Casa Bianca.
Guardare la fiction presidenziale oggi significa percepire come lo scenario si sia improvvisamente invertito. Gli assunti di base sul funzionamento del potere e sul comportamento dei presidenti, su ciò che l’America è nel mondo, sono cambiati. E i dettagli su cui si basavano le serie televisive per sembrare politicamente realistiche le fanno improvvisamente sembrare come provenienti da una linea temporale alternativa.
I presidenti, nella fiction televisiva, non servono solo come veicoli per commenti politici o lezioni di leadership morale. Sono anche dispositivi drammatici. Funzionano come pezzi importanti su una scacchiera. Sono potenti, possono muoversi con forza in molte direzioni. Ma sono vincolati da regole, protocolli e convenzioni. Sono l’incarnazione di un sistema che garantisce che i pezzi si muovano solo nel modo in cui sono autorizzati a farlo. Per questo motivo, forse, i presidenti sono stati raramente i protagonisti delle serie televisive sulla presidenza; le persone che li circondano hanno più spazio per agire.
Una serie come Scandal, in cui alcuni faccendieri lavorano per far sparire le vergogne e le trasgressioni dei potenti di Washington, può esistere solo se esiste il concetto di scandalo. I presidenti televisivi cattivi, come il presidente Logan di 24 o entrambi i presidenti Underwood di House of Cards, tramano in segreto per via della premessa, ormai assurda, che temono le conseguenze. I presidenti di fantasia possono essere corrotti, intriganti, egoisti o ipocriti. Ma comunque incarnano l’istituzione. Anche se violano le regole rappresentano un ordine più ampio. Cosa succede, allora, quando improvvisamente si ha una presidenza che fa la guerra alle istituzioni e alle regole? Significa che la maggior parte dei presupposti banali dei drammi governativi, convenzioni a cui ci siamo abituati per decenni, sembrano anacronistici, come un ritorno dello skyline di New York prima del 2001.
In The Diplomat, per esempio, l’ambasciatrice degli Stati Uniti in Gran Bretagna (Keri Russell) gestisce le conseguenze di un attacco terroristico in cui è coinvolta la Russia e gestisce le preoccupazioni politiche del presidente (Michael McKean). Ci sono molti colpi di scena, ma la parte veramente inverosimile oggi è il suo presupposto fondamentale: un governoamericano che in fondo vede la Russia come un avversario e i Paesi della Nato come alleati. The Residence prevede una cena di Stato con funzionari australiani, organizzata per smussare l’allontanamento degli alleati da parte dell’amministrazione precedente.
La dissonanza si avverte anche in serie più periferiche rispetto alla politica. Gli intrighi spionistici di The Agency presuppongono un’America che vuole mantenere un impegno vigoroso verso gli alleati. Il livello di cooperazione transatlantica di 3 Body Problem sembra ora più stravagante della sua invasione aliena.
C’è qualcosa in tv che si avvicina a descrivere la nostra politica attuale? Succession immaginava un picconatore di estrema destra eletto con l’aiuto di potenti alleati mediatici, ma non l’abbiamo mai visto governare. Paradise si ispira a Elon Musk per il personaggio di Sinatra (Julianne Nicholson), una miliardaria tecnologica che costruisce la sua città sotterranea e detiene il vero potere. Ma la serie è troppo fantastica per evocare davvero il presente. Bisogna guardare indietro, per esempio a Il complotto contro l’America, la miniserie basata sul romanzo di Philip Roth che immagina un governo parafascista eletto all’inizio della Seconda guerra mondiale. Il suo presidente Charles Lindbergh, come nella vita reale, sostiene il movimento America First (uno dei suoi principali consiglieri è il magnate automobilistico antisemita Henry Ford). Più di qualsiasi altro dramma politico, cattura la sensazione di vivere in un mondo in cui gli amici sono ora nemici, i nemici amici, la belligeranza virtù e l’empatia debolezza.
Gli echi più veri della nostra attuale presidenza, tuttavia, possono provenire da show che non parlano di presidenti. Non ultimo The Apprentice, le cui scene di eliminazione dalla Trump Tower rimangono la migliore fonte primaria per il concetto trumpiano di potere esecutivo: un capo che governa per istinto e capriccio, favorendo l’incertezza e la competizione tra i suoi subordinati per ottenere da loro i migliori risultati. Ma assistendo allo spettacolo della seconda amministrazione Trump, dalle riunioni di gabinetto guidate da Musk alla platea di miliardari all’inaugurazione, mi è venuta in mente Kings della Nbc (2009). Fedele al titolo, Kings non parla di un presidente, ma del re Silas (un leonino Ian McShane) – basato sul biblico re Saul – che governa la quasi futuristica terra di Gilboa. Sostiene di essere stato scelto dalla divina provvidenza e tiene banco in un’elegante torre aziendale, con il sostegno di un oligarca dalla ricchezza vertiginosa (Dylan Baker). Una serie strana, troppo strana per il pubblico della rete nella sua unica stagione. Eppure sembra in qualche modo più attuale dei realistici drammi presidenziali di oggi. Suggerisce una lezione, almeno, per chiunque cerchi di catturare il disorientamento dell’attuale momento politico in una serie. Quando il mondo si capovolge, a volte è necessario modificare l’angolazione della telecamera.
(New York Times)