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 2025  aprile 27 Domenica calendario

Non avevo previsto tutto questo

Una pioviggine grigia inzuppa l’Appennino tosco- emiliano, ma la vecchia cucina di casa Guccini è un presidio inespugnabile di voci amichevoli, di luci e di profumi. Ci si sente al riparo dal tempo, non soltanto il triste meteo che ristagna fuori dalla porta; anche il tempo cronologico, il passare degli anni, come se il convivio fosse una forma di tenacia, di indifferenza alle mode e di resistenza alle offese della vecchiaia. Se Crono bussasse alla porta, lo si farebbe accomodare a tavola ( non per caso si dice: ingannare il tempo). Qui si mangia, si beve e si parla come se nulla potesse mai impedirlo. Non ricordo più chi scrisse: ogni attimo perfetto contiene l’eternità. Francesco ne ha ottantacinque, è appena tornato a casa dopo un lungo e travagliato ricovero in ospedale e per lui “tornare a casa”, la sua vecchia casa di Pavana, ai bordi della Porrettana che si srotola verso Pistoia, vuol dire davvero impugnare il tempo, tutto assieme, perché qui è stato bambino, qui sua nonna e sua madre hanno governato la casa e insegnato a campare, qui lui vorrebbe che tutto quanto vada a finire, quando sarà l’ora, nello stesso posto dove tutto è cominciato.
Quando sono arrivato era in poltrona, sembrava abbattuto e silenzioso; poi siede a capotavola e riprende fiato, tono e umore. È un narratore nato, uno che di raccontare storie non si stancherebbe mai, lo ha fatto in musica con una maestria e una potenza che ha reso felici almeno un paio di generazioni. Lo ha fatto con i suoi libri, i più belli e importanti dei quali ruotano attorno al fascino evocativo delle parole, l’italiano e i dialetti, le cadenze regionali (sa recitare A Silvia in modenese e Il passero solitario in pistoiese). Le parole come oggetti da manipolare senza sosta, le parole come storie da raccontare. Come un deposito di memoria nel quale si deve rovistare per non perdere se stessi. Le parole come il suono della vita.
«Sia ben chiaro che queste che stiamo mangiando non sono le crescentine. Sono le crescenti. Le crescentine, quelle che a Parma chiamano torta fritta e a Modena gnocco fritto, sono, per l’appunto, roba fritta. Le crescenti invece sono cotte in formelle di pietra. Le tigelle prendono il nome dalla piastra di metallo nella quale una volta si mettevano sul fuoco. Nel Parmense quel tipo di contenitore è di terracotta e si chiama testo. Da cui i testaroli».
«I miei nonni facevano il pane una volta alla settimana, al giovedì. Se rimanevano senza pane già al martedì, in attesa che venisse di nuovo giovedì, poiché era severamente vietato anticipare il giorno del pane, con la farina si facevano le cine. Diminutivo di focaccine. Se erano di farina di castagne, allora si chiamavano i necci, separati uno dall’altro da fogliedi castagno che lasciavano impressa nei necci la loro venatura. Le cine si mangiavano con la salsiccia fritta o il prosciutto fritto. Per digerire, mia zia apriva un barattolo di limonina lasciato dagli americani. Credo che fosse limone in polvere, una volta aperta la scatola la polvere era dura come un sasso. Se la aggiungevi al bicarbonato, in un bicchier d’acqua, facevi dei rutti tremendi. Non ricordo umano che abbia mangiato più di tre cine. Tranne, forse, uno chiamato affettuosamente il porcone, che una volta riuscì a ingoiare venti uova sode a fine pasto».
Francesco è filologo, collocare le parole al posto giusto, e non confonderle tra loro, è segno del rispetto che alle parole si deve portare. La sua scrittura – compresi i testi delle canzoni – piglia forza anche da un lessico molto ampio, dilatato, e molto evocativo. È una scrittura letteraria e sonora, pre-ermetica, carducciana, orgogliosamente classica, con metrica e rima sempre in ordine: non so quanti versi di Guccini ho mandato a memoria, come le poesie scolastiche. «Dai porti di ponente/il mare ti ha portato/ i carichi di avorio e di broccato». «Son macchine che passano od è il vento? O sono i tuoi pensieri alzati in volo?». E il cinto d’ernia di Amerigo, l’indù in latta sulla scatola da tè e i fiori di scarpata ferroviaria in Autogrill, le sete e le ombre nere che avvolgono la fragile giovinezza di Ofelia.
Anche il libro che ha confezionato per Giunti nella lunga convalescenza, La legge del bar e altre irresistibili leggi dell’essere, risistemazione e riscrittura di vecchi pezzi comici pubblicati su Linus e altre riviste, gode della facondia inconfondibile del suo autore. La battuta secca, da stand up comedian, non gli appartiene, l’effetto comico è ottenuto per accumulo, sta nella descrizione accurata delle persone, delle situazioni, degli ambienti, è una specie di retorica buffa nella quale l’atteggiamento “ufficiale” del retore è parte stessa dell’intenzione satirica. Uno che chiede ascolto, sale sul pulpito, parla forbito per poi sparare cazzate. «Lasciamo perdere, è un libretto, sono puttanate, con qualche puttanata carina», dice lui con indifferenza. «Io poi sono molto guardingo su quello che faccio. Sono stato abituato nella mia vita a stare masato, come si dice a Bologna  (a Milano: stare schiscio, ndr)». Ma dopo un paio di bocconi e appena un goccio di lambrusco (di più non si può, ormai), un poco se lo coccola, il suo libretto. «Il mio pezzo preferito è quello sui cori, quelli trentini e quelli non trentini». Il mio invece è quello sulle balere di una volta, nel quale la nostalgia dei bei tempi andati (vuoi mettere come erano meglio le balere delle discoteche?) finisce per generare una vera e propria epica della precarietà e dell’improvvisazione nelle quali la generazione di Francesco fece i suoi primi passi, nell’Italia ancora segnata dalla guerra. Lui cominciò, ventenne, come orchestrale di un’orchestra da ballo.
«Sono nato nel ’40, quattro giorni dopo l’inizio della guerra. Cinque anni di guerra, che non è stata troppo brutta, qui a Pavana. Giù a Marzabotto, trenta chilometri più a valle, è andata diversa. In campagna il pane c’era, e le galline e i maiali, anche se il maiale dovevamo nasconderlo ai tedeschi. Sono cresciuto molto più timorato di voi boomer: mio padre aveva fatto due guerre, poi il campo di concentramento perché aveva rifiutato Salò. Quando il figliolo, a tavola, diceva “non mi piace”, i genitori menavano. Sono i boomer che cominciano a far casino, a fare quello che gli salta in testa, a girare di qua e di là: noi non andavamo da nessuna parte. Mio fratello, che ha 14 anni meno di me, è andato in India che io non ero ancora andato in Francia».
«Quando sono arrivati gli americani è arrivato il benessere. Siamo cresciuti con la passione sfrenata per tutto quello che era americano. Musica, cinema, letteratura, il modo di vivere. Leggevamo come delle bestie, dalla mattina alla sera non si faceva che leggere. Montagne di fumetti, montagne di libri, a proposito, bisogna fare resistenza a questa idea stravagante che Sàlgari si chiamasse Salgàri. Non sia mai! Sarà in eterno Sàlgari! (mormorio di adesione da parte dei presenti, con l’eccezione del paio di giovani infiltrati. È il volume delle suonerie dei cellulari, altissimo, a certificare l’età media elevata della tavolata)». «A dodici anni feci un concorso fra i lettori del Vittorioso, grande giornale: mandate quattro righe sulvostro paese. Le mandai e me le pubblicarono, una soddisfazione della Madonna. Cominciava così: “Nella forra boscosa e tortuosa del Limentra occidentale”. Parlavo così perché leggevo. Oggi nessuno legge più niente (proteste dei presenti, affettuose ma sentite)». Ce la facciamo a dire qualcosa di non nostalgico? chiedo a Francesco. Breve consulto della tavolata per fornire all’insigne capotavola, irriducibile avversatore dei tempi presenti, qualche suggerimento. Si stabilisce, con il suo consenso, che per esempio le cure mediche sono molto, molto migliorate. Ma dopo qualche secondo di riflessione aggiunge: «Ma sarà poi questo gran culo, essere ancor vivo?». La tavolata, allora, decide all’unanimità di lodare il clamoroso salto tecnologico nella comunicazione tra umani. Il cellulare. Il mondo in tasca. Francesco annuisce. Ma con una controdeduzione di innegabile peso: «Prima, almeno, si poteva sparire. Oggi non è più possibile».
Si torna a ricordare il passato. Alcuni dei presenti sono già pratici dell’inesauribile aneddotica gucciniana, vigorosa e ilare, materia prima del suo narrare comico e dunque anche di questo ultimo libro. Ma sono loro per primi a sollecitare il remake di quelle avventure umane sicuramente già sentite, già narrate forse proprio a questo tavolo, storie fatte di scherzi, di mangiate, di goliardia, nel segno di una ferrea regola etica: «Ci si poteva dire di tutto senza mai offendersi. Nessuno si offendeva, mai». E torna in mente il motto che Sergio Staino, coetaneo di Guccini (nato pochi giorni prima) e suo amico fraterno, volle issare accanto alla testata di Tango, il settimanale satirico al quale in tanti dobbiamo molto: «Chi si incazza è perduto». Qui una breve sintesi su alcuni degli episodi evocati dalla tavolata, con Francesco maestro del coro. Quella volta che un certo Aimone, orchestrale in sedia a rotelle, venne dimenticato nel dehors di una balera, e nevicava forte, e quando ci si accorse che nel furgone (rigorosamente usato, e comperato con le cambiali) Aimone non c’era, e si tornò a prenderlo, era quasi difficile distinguerlo, sotto la bianca coltre, e non era di buon umore. Quella volta che in una Casa del popolo oltre il crinale, nel Pistoiese, un compagno autorevole prese le parola e disse: «Ora finisce il ricreativo e principia il culturale. Pole la donna essere paragonata all’omo?».
Quella volta che l’oste di Porretta Terme, il Pelle («alto come me, calvo come il Duce, l’idea platonica dell’oste»), affrontò un paio di suore che si lagnavano del cibo: «Suore! Con tutta la fame che c’è nel mondo, siete venute proprio qui a rompere i coglioni?». Quella volta che fecero credere al Pelle che lo stesse cercando, per organizzare una gita, un certo ragionier Leone; e lui telefonò, e gli rispose lo zoo di Pistoia, «qui un leone c’è, ma non è ragioniere». Quella volta che sempre il Pelle mise davanti alla trattoria addobbi particolarmente belli e costosi perché doveva passare la processione; ma la processione non passò perché proprio quell’anno aveva cambiato strada; e il Pelle raggiunse il prete e, tirando qualche Madonna, lo convinse a fare passare la processione davanti all’osteria. E corteggiava rudemente, il Pelle, la raffinata intellettuale Renata Colorni «che lo adorava, e rideva alle battute più grevi». Ridere, divertirsi, stare insieme a tavola il più a lungo possibile, ammazzare il tempo con gli amici, ecco un’attività mai trascurata. Che con l’avvento del club Tenco prese nuovo vigore, venne quasi istituzionalizzata. A cavallo tra i Settanta e gli Ottanta salivano a Pavana quelli del club Tenco, Benigni, Paolo Conte, Vecchioni, Carlo Petrini, suonatori assortiti, il presentatore Silva, il fondatore Amilcare Rambaldi, per fare notte a tavola; e di mattina, per darsi un contegno – era pur sempre il Club Tenco – all’Hotel Santoli di Porretta Terme si teneva un serissimo simposio sulla canzone d’autore. Il pomeriggio ci si trasferiva da Francesco, la mamma tirava la pasta, ognuno portava qualcosa, il vino, i dolci, «solo Melega non portava mai un cazzo», sentenzia Francesco, «e la mia mamma glielo faceva pesare».
«Mia madre ne aveva eccome, di umorismo. Ironica, caustica. Imitava le persone. Devo avere assorbito da lei. Il senso dell’umorismo è un mistero, c’è chi ne ha zero, poverello. Ma dalle nostre parti abbonda, un professore mio amico sosteneva che dipende dal fatto che noi emiliani siamo celti. Il famoso umorismo inglese, diceva lui, non è per niente inglese, è celtico. Gli anglosassoni sono arrivati dopo e l’umorismo, dunque, lo hanno già trovato sul posto. Chissà se è vero».
Il primo gruppo in cui suonò il giovane Francesco si chiamava gli Snakers. «Non era un gruppo, era un complesso, allora si chiamavano complessi. Anche l’Equipe’ 84 era un complesso. Facemmo il nostro primo complesso con un batterista che aveva solo le bacchette, si procurò un tamburo non so come, sospetto il furto. La prima scrittura era per andare a suonare in un campo scout, c’erano un sacco di ragazze, non era per la musica che ci si dava da fare, era per le ragazze. La prima canzone che ho scritto era tremenda, si chiamava Ancora ed era un plagio di Only You. Non è mai stata incisa, se Dio vuole…».
Si è fatta l’ora di andare. Chiedo a Francesco come passa il tempo, chiuso in casa. «Non posso più leggere, non vedo film, non ascolto musica, men che meno la mia. Raffaella (sua moglie, ndr) mi ha regalato un giradischi ma non sono capace di usarlo, e poi non so dove diavolo siano finiti tutti i miei dischi, che erano in via Paolo Fabbri, a Bologna, e sono misteriosamente scomparsi. Mi diverto a scrivere limerick (brevi componimenti comici in rima, in Italia resi popolari da Linus nei famosi anni Settanta… me ne dice un paio su Vannacci e su La Russa, molto divertenti ma qui irriferibili). Sto ascoltando l’audiolibro deiPromessi sposi letto da Paolo Poli, è una meraviglia. Le persone che mi stanno attorno e mi sostengono, mi leggono e mi raccontano un bel po’ di notizie, ma la politica mi mortifica, stiamo vedendo cose inimmaginabili. Come dobbiamo comportarci se invadono la Groenlandia? È una domanda che non avremmo mai pensato di doverci fare. E guarda che si va a peggiorare, Vance è peggio di Trump. A me, fatti i debiti conti, basta che mi lascino l’Emilia e la Toscana, per il resto facciano loro. Il Veneto possiamo anche darlo a Putin».
Si decide di leggere ad alta voce la Lettera a Silva, capitolo del libro che riporta un’antica contesa filologica tra Guccini e Antonio Silva, ormai una venerabile figura, da cinquant’anni presentatore delle rassegne del Club Tenco, dalla prima all’ultima. Si beve ancora un poco di lambrusco, bisogna proprio assaggiarlo perché «è quello che fa la figlia di Beppe Carletti dei Nomadi, lei adesso è la sindaca di Novellara». Qualcosa, dunque, è ancora al suo posto, se Novellara è ancora saldamente governata dai Nomadi. Ma troppe cose non lo sono più. Si fa un breve elenco di amici che mancano all’appello ( «È morto N.? Ma che cosa dici? Noooooo!»). Chiedo a Francesco se vede, nel futuro, una cosa bella. «Quando riuscirò di nuovo a camminare voglio andare al ristorante. Sarà una gioia. Per il resto, cosa vuoi: non lo vedi come è ridotto il mondo?».
Però uno dei vantaggi della vecchiaia, gli dico, è che si dimenticano un sacco di cose. «Io invece me le ricordo quasi tutte», risponde. E sembra di vedere la sua mamma che tira la pasta sul tavolo finalmente sgombero dei nostri bicchieri.