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 2025  aprile 29 Martedì calendario

Mucche, Marlboro e proiettili. Sarajevo, “città-polveriera”

“Vi piace l’espressione guerra civile? A me molto”. Così scriveva Eduard Limonov nel 1982. L’intellettuale russo sarebbe stato presto accontentato. Dalle alture intorno a Sarajevo, dove dieci anni dopo iniziava “l’assedio più lungo della storia moderna”, gli avrebbero dato la possibilità di sparare sulla città. La capitale bosniaca, stratificazione multietnica in una conca circondata da montagne, era il luogo ideale per realizzare atavici sogni nazionalisti. Il Novecento moriva assai poco dolcemente in una degenerazione senile che riportava il secolo ai suoi inizi e all’attentato del serbo Gavrilo Princip contro Francesco Ferdinando, arciduca d’Austria.
“Io la velocità della luce la so, ma la velocità del buio non ce l’hanno ancora insegnata…” diceva un ragazzino che stava dall’altra parte della barricata rispetto ai serbi e a Limonov. È una delle voci del libro di Miljenko Jergovic, Le Marlboro di Sarajevo, da poco ritradotto e ristampato da Bee. Un classico di quegli anni in cui si ballava su questa sponda dell’Adriatico e si moriva sull’altra. La velocità del buio deve essere opposta a quella della luce, cioè molto ridotta, e la capitale della Bosnia veniva sottoposta a un infinito bombardamento con grezzi mortai.
I pacifisti avevano tentato di impedire l’imminente mattanza manifestando. Qualcuno ci lasciava la pelle come Moreno Locatelli o la studentessa di medicina Suada Dilberovic. Uccisi dai proiettili dei serbi che sparavano sulla folla. Fa effetto vedere come niente sia cambiato e come tutto sia cambiato. Immergersi oggi di nuovo nell’assedio di Sarajevo significa tornare a eventi come la strage di Markale, il mercato coperto, 68 morti. I serbi dicevano che i musulmani se l’erano fatta da soli per provocare finalmente l’intervento della Nato, ma non avevano una macchina propagandistica come quella russa e i social network non esistevano ancora per farle da cassa di risonanza. Immergersi di nuovo in quelle vicende è come sbucare da un tunnel che dalle rive della Miljacka sbuca su quelle del Dnipro.
Jergovic racconta quello che Sarajevo era stata prima della guerra. Racconta il jazz club gestito da Vedra, un messicano con una ragazza sempre diversa al fianco, il muezzin che chiama alla preghiera di mezzogiorno mentre suonano le campane, personaggi come un musulmano elegante e di impronta asburgica: “Zlaja era un attempato, eterno studente di giornalismo, figlio di una famiglia musulmana benestante che sapeva a un tempo di morbido islam bosniaco e di blasonata nobiltà viennese. I buontemponi della città dicevano che in casa loro neanche una mosca era mosca qualsiasi: che se volava, volava in frac”.
Jergovic racconta anche il momento in cui tutto questo ha smesso di esistere. Racconta come brucia la biblioteca che contiene antichi manoscritti orientali, colpita deliberatamente dai serbi, ma anche come bruciano i libri nelle case private. Racconta il bambino che esce dal luogo in cui è cresciuto senza potersi muovere e vede per la prima volta il mondo: “La città restò da qualche parte indietro, mentre davanti agli Jurisic si apriva lo spettacolo di un mondo senza assedio. Il vecchio e la vecchia stavano zitti con gli occhi persi nel vuoto, la figlia indicava una quercia al nipotino e diceva: ‘Quella è una quercia’, poi un pino e diceva: ‘Quello è un pino’, poi una mucca e diceva: ‘Quella è una mucca’, poi il mare e diceva: ‘Quello è il mare’…”. Racconta anche dell’insonnia nelle notti di guerra e del sonno che ti coglie a tradimento all’alba mentre cade la prima neve: “Dormivano quando il giorno, per la prima volta in dieci mesi, nel suo biancore è entrato nella stanza. Come bambini nei letti d’ospedale non ne volevano sapere di svegliarsi”. (Anche i bambini che giocavano sullo slittino venivano eliminati).
Jergovic ha uno stile che cambia tono: a volte laconico alla Hemingway come nel più bel racconto (Risveglio), quello sulla notte e la neve all’alba. O con un tono epico e alla Andric (Il vojvoda) dove si narra di Musa, un serbo, grande scorticatore di agnelli, a cui l’esercito jugoslavo serbizzato vuole affidare le armi e il comando dei combattenti in un villaggio vicino a Zenica e si spara dopo essersi scolato una bottiglia (più adatti alla bisogna personaggi come il russo Igor Girkin, agente segreto che si vede prima in Transnistria, poi in Bosnia, quindi in Crimea e Donbass). Jergovic dipinge un paesaggio collettivo ma per frammenti. Vede le cose da vicino, non dalla prospettiva storica di Andric, ma individua i meccanismi che si vedono solo dal di dentro: l’odio tra serbi, musulmani e croati di Bosnia, per lui, era un odio che poteva sfociare in una rissa individuale da osteria e solo un intervento esterno organizzato, quello del governo di Belgrado, l’ha potuto trasformare in guerra. Eppure, nonostante questo intervento esterno, c’era chi diceva: “Vi piace l’espressione guerra civile? A me molto”.