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 2025  aprile 29 Martedì calendario

In carcere si può anche scoprire che la libertà inizia dalla laurea

Quando l’ho incontrato, pochi giorni fa, aveva ancora in testa la corona d’alloro. Con i segni dell’emozione in viso, all’ingresso del Polo universitario del carcere torinese Lorusso e Cutugno, stringeva tra le mani la sua tesi. Se per tutti il giorno della laurea è una data memorabile, per Andrea valeva molto di più: era il simbolo e la promessa di un’esistenza nuova, maturata proprio durante la detenzione. Si è laureato a 44 anni ma poteva farlo molto prima, anche perché “fuori” aveva da tempo superato con successo tutti gli esami della magistrale di Giurisprudenza. Ma la vita è andata da un’altra parte: studente modello – fin troppo “libresco” come ama definirsi – nel 2007 abbandona gli studi e si costruisce una carriera da imprenditore che dalla ristorazione approda nel mondo dell’intrattenimento e termina, due anni fa, in carcere, dove dovrebbe rimanere per altri tre anni. Parla di «un blackout di cui sono stato protagonista e vittima, fino a rimanere coinvolto dalle logiche di quel mondo e dalle persone sbagliate con cui mi ero legato. Grazie a Dio, qui dentro ho incontrato le persone giuste, gli educatori e la criminologa che mi hanno accompagnato nella presa d’atto dei miei errori e una tutor che ha supportato il cammino verso la tesi. È stata una ricostruzione della mia persona che mi ha permesso di non ridurre l’esperienza della detenzione a una parentesi in cui la vita si ferma, ma di trasformarla in un trampolino per ripartire. Ora che sono laureato in legge, sarà un punto d’onore non infrangere più la legge». A ndrea è una delle 17 persone detenute che vivono nel Polo universitario della Casa circondariale Lorusso e Cutugno, un’esperienza che nel 1998 ha visto Torino come apripista a livello nazionale. Altri 47 sono iscritti all’università ma risiedono ciascuno nelle rispettive sezioni a cui sono state destinate. «Certo, sono una piccola minoranza rispetto ai 1.369 che ospitiamo qui, e molti altri frequentano i livelli di istruzione più bassi, a partire dai corsi di alfabetizzazione – commenta la direttrice Elena Lombardi Vallauri -. Molti frequentano la scuola elementare, non senza difficoltà perché devono fare i conti con problemi di tossicodipendenza o disturbi comportamentali. Gli studenti universitari rappresentano un’eccellenza, ma chiunque studia in carcere offre una testimonianza significativa del desiderio di reinserirsi in maniera costruttiva nella società e di utilizzare al meglio il tempo passato qua». Q uando ho incontrato Tommaso a Sulmona, ha esordito con una metafora che racconta un pezzo della sua vita. «In questi anni sono passato dal dire “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” al piacere di rispondere alla domanda di un professore, e ho sostituito l’umiliazione del numero di matricola carceraria con l’orgoglio di quello da studente universitario». Nel 2017, a 39 anni, si è consegnato alla polizia che era sulle sue tracce per una serie di reati pesanti. Dopo un lungo percorso trattamentale fatto di revisione e di consapevolezza dei danni arrecati alla collettività, nel carcere di Teramo accade quella che lui definisce «la svolta decisiva»: è incuriosito da un gruppo di reclusi che seguono con grande interesse le lezioni di un docente universitario, comincia a frequentarle e viene affascinato «dalla bellezza di ciò che sentivo e che mi insegnava a guardare le cose in modo diverso e positivo, anche se si trattava di argomenti scientifici per me del tutto nuovi. Così, nel giro di qualche tempo, alla monotonia del carcere si è sostituita la passione per lo studio». Tommaso si iscrive al corso di laurea in Scienze gastronomiche per la sostenibilità, dove ha già sostenuto metà degli esami, viene poi trasferito nel carcere di Sulmona e oggi è uno dei 40 che fanno parte del Polo universitario. A fine pena vuole tornare in Calabria nelle terre di sua proprietà e mettere a frutto gli studi nel settore della trasformazione agroalimentare, ma già ora si sente utile per il messaggio positivo che manda ai due figli: il più grande frequenta la facoltà di Economia, l’altro il quarto anno delle superiori. «Per tanti anni mi ero illuso di poterli gratificare con tante cose materiali mentre in definitiva sono stato per loro un esempio da non imitare, e la detenzione li ha privati del mio affetto di padre. Prima di entrare in carcere ero schiavo di valori negativi, lo studio ha rappresentato l’inizio della conquista della libertà: mi dà sicurezza e mi rende orgoglioso, mi ha permesso di scoprire risorse e capacità che neppure conoscevo e che l’ignoranza, il contesto sociale in cui sono cresciuto e le strade sbagliate che ho percorso tenevano nascoste. Ho avuto la fortuna di incontrare professori che hanno spalancato nuovi orizzonti e hanno offerto molto più che la loro competenza: ci hanno guidato a conoscere noi stessi. Persone davvero speciali, senza di loro il mio riscatto sarebbe stato impossibile. Il carcere è l’officina di riparazione della mia vita». O gni giorno diventa un gradino per risalire dall’abisso di male in cui era sprofondato, e la riscoperta della fede lo accompagna in un’esistenza nuova. «Mi sento come Zaccheo, un furfante raggiunto e rigenerato dallo sguardo di Cristo. Sono molto consapevole dei giudizi negativi e dei pregiudizi di molte persone nei nostri confronti. Non le biasimo, hanno più di un motivo per nutrirli, ma nel mio cuore sento che quell’uomo innocente condannato a morte in croce è venuto a cercarmi nel buio della mia cella e ha ridato speranza alla mia vita». Le storie di Enrico e Tommaso sono due punte di un iceberg che sta crescendo nell’oceano del mondo carcerario. Nell’anno accademico 2024-2025 sono 1.840 le persone detenute iscritte all’università, 133 in più dell’anno scorso, il 2,5 per cento del totale, con un trend in continua ascesa. L’età media si aggira intorno ai 45 anni, con un nucleo ristretto di ventenni e trentenni e una forte presenza di ultrasessantenni (tra i quali molti ergastolani) che si iscrivono per gratificazione personale più che ai fini di un reinserimento lavorativo a fine pena. 380 sono i tutor: studentesse e studenti senior, dottorandi e neolaureati, in parte retribuiti e in parte volontari o impegnati nell’ambito di attività didattiche formative che prevedono l’acquisizione di crediti. Nel 2018 la Conferenza dei rettori delle università italiane ha promosso la nascita della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp), alla quale aderiscono 47 università presenti in 107 istituti penitenziari. «L’università fa bene al carcere, ma il vantaggio è reciproco – ragiona il professor Giancarlo Monina, presidente della Cnupp -. La presenza dell’università contribuisce al processo di rieducazione e di inserimento sociale e lavorativo dei detenuti e ad aprire il carcere alla società. Ma è vero anche che il carcere fa bene all’università, nel senso che sollecita nei docenti e negli studenti liberi una nuova sensibilità, una pratica di cittadinanza attiva, una crescita umana e culturale. In ambito accademico si parla di “terza missione”, quella dell’impegno sociale e della divulgazione della conoscenza degli atenei». M olto resta ancora da fare in termini di spazi e di dotazioni tecnologiche, di accesso del personale universitario e di comunicazione tra atenei e carceri, ma ciò che si riesce a fare rappresenta un altro passo per promuovere il diritto allo studio anche tra le persone private della libertà, e per rendere effettivo l’articolo 27 della Costituzione – molto evocato ma troppo disatteso – che evoca la funzione educativa della pena. Recita un detto che circola nelle carceri: ogni detenuto che studia è una branda che si svuota.