corriere.it, 28 aprile 2025
Emigrazione, il record negativo dell’Italia e la corsa della Spagna: cosa (non) si fa per fermare la grande fuga
In questi mesi l’attenzione ai flussi di prodotti industriali, digitali o finanziari è stata tale che quasi dimenticavo un’altra categoria di export dall’Italia: gli esseri umani. Invece su quella andiamo forte. Secondo i dati dell’Istat, l’agenzia statistica, se ne sono andate dall’Italia 191 mila persone: fra questi 155 mila italiani e 35 mila stranieri (arrotondo per difetto). Stracciato ogni record recente, anche quelli della Grande recessione di una quindicina di anni fa. E siccome a prima vista un dato del genere non ha senso – oggi le imprese faticano a trovare addetti e se li rubano – è il caso di iniziare a chiedersi cosa stia accadendo in Italia.
Flussi in uscita
Innanzitutto, un po’ di prospettiva. Dopo decenni dalla fine delle grandi migrazioni partite a fine ‘800, le uscite ufficiali dal Paese hanno ricominciato a superare le centomila all’anno nel 2012. È normale, perché allora il Paese veniva da tre severe recessioni di seguito. Verso metà dello scorso decennio, con l’economia ancora fragile, si raggiunge e supera quota 150 mila e anche questo era prevedibile: nel 2015, in soli sette anni, il numero dei disoccupati era più che raddoppiato a oltre tre milioni di persone mentre moltissimi giovani (o non tanto giovani) erano ormai così disperati da cercare una soluzione all’estero. Poi però il fenomeno entra nel costume sociale; nell’anno prima della pandemia, il 2019, le cancellazioni di residenza per trasferimento all’estero segnano il record dell’era moderna: ufficialmente sfiorano quota 180 mila, anche se intanto la disoccupazione era calata a 2,5 milioni di persone.
Il Covid, quando arriva, cambia tutto. Le uscite dal Paese scendono rapidamente, prima perché ci si muove con difficoltà, poi probabilmente perché la ripresa si rivela rapida e trovare lavoro in Italia inizia a diventare più facile. Nel 2023, primo anno pieno di governo dell’esecutivo di Giorgia Meloni, l’emigrazione ridiscende ai minimi da otto anni: 150 mila uscite ufficiali.
Invece l’anno scorso si registra un nuovo balzo, improvviso: più 27% rispetto al 2023, con un numero degli italiani ufficialmente partiti dal Paese che risulta di gran lunga il più alto nelle serie moderne. Soprattutto, come dicevo, non è un record coerente con ciò che conosciamo del mercato del lavoro. Il numero dei disoccupati continua a calare per tutto il 2024 fino a tornare ai minimi da quasi vent’anni, dimezzato dai tempi della crisi dell’euro. Anche il numero degli occupati in Italia, quasi 26 milioni, è ai massimi da quando esistono serie affidabili. Persino gli inattivi scendono e sono ai minimi di sempre.
Eppure sempre più italiani votano con i piedi e lo abbandonano per situazioni che ritengono migliori. Certo, nel 2024 l’economia ha rallentato fino quasi a crescita zero e la stagnazione quest’anno proseguirà senz’altro. Ma questi non sono fenomeni migratori come quelli dello scorso decennio, quando il lavoro non c’era: oggi c’è (o c’è stato fino al 2024) e invece le persone, in gran parte giovani, se ne vanno a cercarlo altrove ancora di più.
Cosa sta succedendo? La risposta onesta è: non lo so. Posso giusto aggiungere qualche elemento che forse aiuta a capire. Il primo è che, prevedibilmente, il fenomeno è molto più vasto di quanto rivelino i dati Istat perché molti lasciano l’Italia senza cancellare ufficialmente la propria residenza e dunque sfuggono alle statistiche. Se ne ha la prova dai dati sui flussi dall’Italia secondo i principali Paesi di destinazione. Quando un migrante arriva si deve registrare per aprire un conto in banca, trovare casa, firmare un contratto di lavoro, chiedere sussidi, dunque compare nei dati.
I numeri reali: il flusso di migranti italiani verso Svizzera, Germania e Spagna
Secondo l’Istat per esempio nel 2023 arrivano in Svizzera 12.900 persone dall’Italia, ma l’ufficio statistico del Berna ne registra oltre il 50% in più. Quanto alla Germania, nel 2023 calcola 44 mila arrivi dall’Italia quando l’Istat ha un dato di meno della metà (e sicuramente è corretto quello tedesco, per le ragioni spiegate).
Ma il caso più notevole riguarda la Spagna, che un decennio fa soffriva di una vasta emigrazione giovanile verso l’estero e di bassa attrattività; appena più di quattromila italiani andavano lì nel 2015 secondo l’Istat, mentre oggi il flusso è più che quadruplicato e in base alle tendenze attuali la Spagna diventerà presto la meta più ricercata dai migranti italiani: il Paese cresce, presenta poche difficoltà di inserimento ed è avvertito da molti giovani italiani come socialmente e culturalmente più aperto. Anche qui il dato reale dei flussi è senz’altro molto più alto dei 19 mila registrati dall’Istat: l’agenzia statistica di Madrid dà conto di 48 mila italiani approdati nel 2023; alcuni saranno argentini con passaporto italiano, ma nel complesso il numero dei nostri connazionali nel Paese iberico è quasi raddoppiato (a 325 mila) in meno di dieci anni.
L’uscita delle forze migliori del Paese
Insomma, quelli che se ne vanno dall’Italia sono molti più dei 190 mila ufficiali. E non sono spinti dal fantasma della disoccupazione, perché vengono per lo più da territori che non ne conoscono. L’anno scorso si è ufficialmente trasferito all’estero quasi un residente del Veneto ogni duecento (moltissimo, se si pensa che i dati Istat sono sottostimati e il fenomeno si concentra su poche fasce d’età), mentre lo ha fatto poco più di un residente della Campania ogni quattrocento. Ovunque tornano le stesse tendenze: le regioni più dinamiche del Paese sono le stesse da cui si va via dall’Italia di più.
In parte è fisiologico, perché la mobilità in Europa aumenta. Ma in parte segnala che qualcosa in Italia non gira e spinge verso l’uscita alcune delle forze migliori. In proposito si potrebbe comporre un’enciclopedia in dodici volumi, con molte spiegazioni valide. Un po’ ne ho parlato in passato.
Il peso delle tasse (non) progressive
Oggi vorrei ricordare giusto alcune condizioni di cornice di questa perdita di competenza, energie, voglia di fare. Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, nel suo ultimo libro («Più uno: La politica dell’uguaglianza») inserisce un dato fulminante: «Le entrate erariali che possono ancora essere considerate progressive non raggiungono neanche il 40% del totale». Il resto, oltre il 60% delle tasse pagate in questo Paese, ormai non è più calcolato sulla base della capacità dei cittadini di contribuire. È semplicemente «flat», uguale per tutti come aliquota, ma riservato a pochi e profondamente diseguale proprio a causa della diversità dei redditi e dei patrimoni: sono le «flat tax» degli autonomi, le «cedolari secche» sugli affitti, i prelievi sui redditi da capitale, sulle successioni, quelli sulla «rivalutazione» ad aliquota ridotta di attività non quotate, i «redditi dominicali» agricoli che in certi casi consentono di calcolare somme irrisorie; sono naturalmente le imposte indirette, ma sono soprattutto una miriade di regimi speciali in gran parte a favore di 4,6 milioni di contribuenti (su 42 milioni) soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche. Non facciamo di tutte le erbe un fascio: esistono valide ragioni per le quali l’Iva o i prelievi sui redditi da capitale hanno aliquote pari per tutti.
Ma l’accumularsi di regimi speciali per elettori «speciali» fa sì che in Italia la progressività delle tasse – la sua equità – sia molto indebolita. Anche se fosse senza evasori, il Paese sarebbe fiscalmente molto ingiusto. Ruffini nota che così la legge tradisce uno dei grandi principi della Costituzione. Io sospetto che molti fra quelli che emigrano erano soggetti al trattamento più iniquo, quello del lavoro dipendente senza regimi di favore. Ma il tema non è all’agenda del governo o del Paese.
Chi controlla i controllori
C’è poi una seconda condizione di cornice al grande deflusso degli italiani. In apparenza non è legato ad esso, ma un sistema complesso ha mille vasi comunicanti che nel tempo agiscono. Avete letto il decreto con cui la Presidenza del Consiglio pone condizioni di fatto quasi impossibili all’offerta di Unicredit per Banco Bpm? No, perché non è stato reso pubblico. Ma è stato emanato, all’ultimo momento, in modo che Unicredit non abbia tempo di apportare rimedi. Il governo si appella al «Golden Power», il suo potere di bloccare operazioni di mercato che rappresentino una «minaccia alla sicurezza nazionale». Ma in questo caso non siamo di fronte un misterioso operatore della Corea del Nord che si voglia impadronire di un’azienda italiana di tecnologie militari: c’è un’offerta trasparente di una banca quotata milanese su un’altra banca quotata milanese e gli azionisti che hanno investito i loro soldi in entrambe sono chiamati, in modi diversi, a valutare. Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia, sostiene invece che l’intervento del governo risponde «all’interesse nazionale» e nessun altro può discuterlo.
Flussi in uscita
Non è proprio così. La Corte di giustizia europea, che corrisponde nel nostro ordinamento a ciò che la Corte suprema è negli Stati Uniti, si è già pronunciata in proposito di recente quando l’Ungheria di Viktor Orbán ha bloccato un paio di operazioni invocando proprio «minacce alla sicurezza nazionale». La Corte ha detto che tali «minacce» non erano dimostrate e un governo non può decidere in modo arbitrario: «La sicurezza pubblica – scrivono i giudici – può essere invocata solo se esiste una minaccia reale e sufficientemente grave a un interesse fondamentale della società».
Non può essere il caso di Unicredit-Banco Bpm. Ovviamente il problema era il mancato gradimento politico. Per questo il governo l’ha di fatto fermata con un atto che, in caso di ricorso, le corti definirebbero probabilmente illegale. Tutti sanno però che sarebbe tardi, perché intanto l’operazione di mercato salta: a chi aveva investito o voleva investire è stato impedito di scegliere cosa fare del proprio denaro e come valutare l’opzione più produttiva. Non proprio incoraggiante, per chiunque impieghi o pensi di impiegare in futuro dei soldi in Italia.
Scandalizzarsi? E che c’entra con il record di emigrazione? Va preso atto che la tendenza dirigista del governo è sempre più frequente (anche) in Italia: dalle telecomunicazioni, alla scalata su Mediobanca e di riflesso alle Generali. È così invalsa che ormai gli studi legali notificano al governo per il vaglio del «Golden Power» anche le acquisizioni più insignificanti, che finiscono così in una banca dati in un ministero a Roma.
Si può essere d’accordo o no. La storia insegna che alla lunga non è così che si creano economie aperte e capaci di attrarre giovani dall’estero o trattenere quelli che abbiamo. Ma il mio punto è un altro: se la politica vuole controllare sempre di più l’economia, la finanza, l’industria naturalmente può farlo (anche violando la legge); solo che dopo dovrà rispondere ancora di più dei risultati, inclusi quei giovani che se ne vanno a centinaia di migliaia.