Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 28 Lunedì calendario

Intervista a Franco Curletto

«Per scelta e per destino». Comincia così questa intervista. E anche la lunga carriera di uno dei maestri italiani dell’arte della coiffure. E artista è anche lui, ma sempre ben saldo con i piedi per terra, legato ai suoi saloni e alle clienti. Il suo nome, Franco Curletto, e le sue forbici – «le mie non le impresto a nessuno, neppure a mia figlia» – attraversano i decenni al fianco di grandi nomi sia della moda sia dell’arte: Franca Sozzani, Vanessa Beecroft, Marina Abramovich, le case di moda praticamente tutte da Dolce e Gabbana a Cavalli a Ferragamo a Elie Saab. E poi le Olimpiadi, le modelle, le campagne pubblicitarie di L’Oréal e non solo. Con una passione totalizzante.
Era questo il suo sogno?
«In realtà, da piccolo volevo fare il fotografo».

Osteggiato dai genitori?
«A 13 anni cominciai a lavorare con loro, all’epoca si poteva. Mia madre aveva il negozio a Villar Perosa, mia nonna a Fenestrelle. Anche mio padre faceva lo stesso mestiere. E una volta mi disse: “Nulla in contrario se vuoi fare il fotografo, ma noi non sapremmo che indicazioni darti. Però, puoi provare a fare il nostro lavoro».
Scelta o destino?
«Entrambi. La prima esperienza fu in L’Oréal».
E le piacque?
«Diventò una malattia».
Malattia?
«Io funziono così. Quando una cosa mi piace e la faccio, non esiste altro».
Capì subito di avere talento?
«Era chiaro, credo. Ai tempi, in L’Oréal, videro in me un ragazzino con buone capacità. E mi mandarono nel salone di Roma. Era il periodo in cui nascevano i tagli, prima i parrucchieri non sapevano tagliare. Avevo 15 anni e mi ritrovavo in via Condotti».
E i suoi?
«La mia famiglia è stata la cosa più importante che ho avuto. Erano del mestiere, capivano. Mio padre mi disse una frase semplice: “Se devi andare in giro per il mondo a fare il cretino, puoi pure startene a casa. Ma se è per imparare, noi ti sosteniamo”».
E forse il segreto di una carriera lunga, sempre sull’onda, mai banale, è proprio questo: i legami. Mentre parliamo, e Franco racconta con voce pacata un percorso stellare, ha fatto venire la sua famiglia che, come quella di nascita, lavora con lui. A livelli altissimi, tutte e due: la moglie Monica e la figlia Gaia. Sono uniti, amorevoli ma allo stesso tempo indipendenti. Sono una squadra.
Cosa rappresenta Monica per lei?
«Dopo i miei genitori, è stata ed è la persona più importante della mia vita».
Galeotto fu il lavoro?
«Era venuta per fare una prova. Non ho mai mischiato il lavoro con il privato, ma ho capito subito che era lei. È l’unica persona che mi sia mai interessata nella vita».

Mentre racconta, lei ride e spiega che in realtà lui fu talmente duro e antipatico durante quella prova, che quando uscì e salì sulla macchina di suo papà che l’aspettava fuori, disse che non sarebbe mai andata a lavorare in quel posto. E invece.

Per una persona che lavora sempre, anche in giro per il mondo, diventare padre è stata una gioia o una complicazione?
«Gaia è stata molto desiderata. E meditata. Non avrei mai fatto un figlio se non con Monica. Avevo 39 anni e in quei giorni ero a Parigi (la capitale francese ricorre molto nei suoi racconti, ndr). La bambina doveva nascere di domenica e io ero rimasto bloccato in Francia. Mi sentivo male, inadeguato per non essere presente in un momento così fondamentale. Lei invece aveva già capito tutto. Ed è nata quando sono arrivato, con un taglio cesareo».
Lavorare insieme, così a stretto contatto con la propria compagna, non è complicato?
«Non per noi, siamo molto in armonia. E credo dipenda anche dal fatto che condividiamo dei valori che ci sono stati insegnati».
È stato anche un maestro?
«Quando Monica è arrivata io ero già Franco Curletto. E vivevo molto la moda, che è un sistema complesso. Per me, Il diavolo veste Prada è la verità. In qualche modo lei rifiutava quel tipo di mondo e di dinamiche. L’ho guidata».
Il taglio perfetto?
«Il bob, il caschetto. Eterno».
Tra le sue «teste importanti», anche tante regine, è così?
«Anche, sì».
Qualche nome?
«I Fürstenberg, i Borromeo, i Marzotto. Rania di Giordania. Ultimamente abbiamo realizzato una cosa a Montecarlo di cui non posso parlare».
Non le è mai passato nell’anticamera del cervello di chiudere i suoi saloni e dedicarsi alla moda e all’arte a tempo pieno?
«Mai. Per chi fa il mio mestiere la vera fonte di ispirazione è il salone. Un po’ come la strada lo è per lo stilista. È la realtà. Come quando David Lachapelle realizza Rize e si ispira alla street dance di Los Angeles».
Lei però resta a Torino.
«Sono nato qui. Fa parte di me. In qualche modo è anche un limite. Oggi come oggi si può lavorare e fare tendenza e successo da ovunque. Se Gaia avesse voluto andare a Milano ci saremmo spostati».
Anche Gaia lavora con lei. Le fa piacere?
«Sul lavoro non sono “papà”. Ci sono clienti che hanno scoperto che era mia figlia dopo tantissimo tempo. Le dico sempre di non lasciarsi condizionare dal mio percorso. Siamo simili, anche lei lavora come me. Con tantissima passione, abnegazione».
Lei ci sa stare in vacanza?
«Poco. Devo sempre fare qualcosa. Se non taglio, salgo sul trattore (abitano fuori Torino e hanno anche una piccola azienda agricola, ndr)».
Un suo difetto?
«Ho un buon carattere».
Un pregio?
«Sono veloce. È una cosa che amo molto anche negli altri».
Chi ha conosciuto di «veloce»?
«Franca Sozzani, tantissimo. E Giovanni Gastel. Che era famiglia per noi».
Avete fatto diverse cose con Gastel, tra cui un libro.
«Con lui c’era un’intesa fortissima, il nostro rapporto anche professionale è stato come un idillio. Per me era come un fratello. Anche mia madre lo adorava. Negli ultimi tempi ho ritrovato un po’ delle sue sfumature in Albert Watson con cui abbiamo collaborato su un lavoro bellissimo».
Ci anticipa qualcosa?
«Si tratta di un progetto di 200 foto su Roma, nell’ambito del Giubileo, con protagonisti incredibili. Noi abbiamo curato i capelli».
Lei ha collaborato e influenzato il lavoro di molti artisti. Quello cui è più legato?
«Vanessa Beecroft. Vidi per la prima volta una sua performance in Austria. Meravigliosa. Ma le teste non andavano bene. Il suo agente era Jeffrey Deitch. Me la presentarono e glielo dissi. Mi diede appuntamento al Guggenheim a Venezia. Ci sedemmo nel giardino, e le dissi che doveva far usare delle parrucche alle modelle per rendere quella unicità che desiderava. Era un’impresa titanica e costosissima. Ne venne fuori una mostra incredibile a Palazzo Ducale».