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 2025  aprile 28 Lunedì calendario

La mia cicoria sulla luna

«John, riponi subito quel panino, è un ordine!». La frase non è celebre come «Houston, abbiamo un problema», ma fu comunque un piccolo allarme. Un po’ per goliardia, un po’ perché – come disse lo stesso John Young, astronauta a bordo della Gemini 3 nel 1965, primo volo spaziale americano con due astronauti – «il cibo era pessimo». E così, si portò di nascosto un panino con carne di manzo e maionese, e lo tirò fuori sotto gli occhi sbigottiti del suo comandante, Gus Grissom. Il panino era ovviamente vietato.
Storie di pionieri del cosmo. Ma quel panino forse sarebbe vietato ancora oggi: «Tutto ciò che provoca briciole, o comunque piccoli residui che possano danneggiare le delicate e costose apparecchiature, è assai sconsigliato – conferma Franco Malerba, ingegnere e fisico, primo astronauta italiano in orbita nel 1992 sullo Space Shuttle Atlantis. E ora, a capo di un team di tecnologi e ricercatori della startup “Space V” (la V sta per “vegetali"), che ha realizzato il primo prototipo di “serra spaziale”, per la produzione di ortaggi nello Spazio. La serra di Space V, che ha sede a Genova e Torino (nell’incubatore I3P del Politecnico), è una delle attrazioni di Euroflora, inaugurata giovedì scorso a Genova, presso il Waterfront del Levante.
Malerba, lei guida un progetto destinato agli astronauti delle prossime missioni?
«L’idea è quella. Per coloro che andranno sulla Luna, ma anche per quelli delle future stazioni spaziali private. È giusto che gli astronauti che trascorrono lunghe permanenze nello Spazio consumino cibo fresco, con vitamine che già sulla Terra sono importanti per tutti noi, e nelle condizioni di vita nello spazio ancora di più. Le serre spaziali, come la nostra, sono la soluzione per usufruire di cibo fresco in loco».
Ma quando lei è stato in orbita sullo Shuttle, il cibo com’era?
«Migliorato rispetto alle missioni precedenti, ad esempio con l’epoca dell’Apollo. Ma era comunque cibo disidratato che andava poi reidratato con l’acqua di bordo, che non era il massimo, poiché prodotta dalle celle a combustibile. Però, tutto sommato, decente».
Ma è vero che anche lei fece come Young, portando una prelibatezza di nascosto, o quasi?
«Ogni astronauta può portare un simbolo culinario della propria regione. Io essendo ligure portai del pesto. Che però non era del tutto... contemplabile, anche se non creava potenziali pericoli. Young, curiosamente, ai tempi della mia missione era l’astronauta più anziano del team e fu il primo a salutarci dopo il rientro a terra. Comunque portai del parmigiano, rigorosamente a cubetti, sempre per il fattore della dispersione di briciole, che gustammo tutti».
E la storia degli spaghetti?
«In realtà fu più che altro un esperimento. Noi portammo in orbita un satellite a filo collegato allo Shuttle, e gli spaghetti ne erano un simbolo tecnico, ma anche del cibo made in Italy. In assenza di peso svolazzavano, e credo che Jeff Hoffman li portò con sé con la scritta sul contenitore “non mangiare”, proprio perché erano lì per gioco, oltretutto scotti, senza condimento e sapore».
Ora lei progetta una serra a uso spaziale. Di cosa si tratta?
«È una serra detta “adattiva” e multipiano, dove ogni piano si adatta alla crescita delle piante, con una duplice funzione: sulla superficie superiore ospita il substrato di coltivazione e di fertirrigazione, mentre su quella inferiore vi è il sistema di illuminazione, di climatizzazione e ventilazione. Quindi non ci sono volumi ed energia sprecati, ed è una buona idea anche da trasferire sulla Terra. Ne stiamo preparando una da destinare ben presto allo Spazio».
Perché non si invia frutta o verdura fresca nello spazio?
«Caricarla e poi inviarla nello spazio richiede molto tempo, giorni e a volte settimane. I cibi per lo Spazio devono avere lunga conservazione. Solo ai nostri tempi, dello Shuttle, si faceva qualche eccezione, perché vi era un sistema che permetteva di caricare il tutto in poco tempo prima del lancio. Noi avevamo delle mele, che usammo più per un esperimento sulla conservazione del moto angolare... Ma sulla Luna o su Marte, tutto ciò sarà impossibile e la verdura e la frutta l’astronauta le dovrà coltivare con serre adattive».
Quindi, dire che l’astronauta del prossimo futuro partirà ingegnere e diventerà contadino è corretto?
«Già oggi gli astronauti, specie quelli delle missioni di lunga durata, devono saper svolgere vari tipi di operazioni. L’astronauta della Nasa Scott Kelly, che restò un anno intero in orbita, coltivò un tipo di lattuga rossa che poi consumò in orbita. A conferma che è un metodo che funziona. In assenza di peso, le piante crescono bene, le radici vanno verso l’umido e le foglie verso la luce. Però naturalmente si richiedono nuove sperimentazioni e noi siamo pronti».
Scenari come “The Martian”, con l’astronauta che coltiva patate su Marte, quindi saranno realtà? Ci può fare un esempio di verdura che sarà prodotta con la serra?
«La cicoria. È ricca di antiossidanti. Gli astronauti durante le loro missioni sono esposti a stress, e quindi moltiplicano i loro radicali liberi che sono negativi per noi a terra e a maggior ragione per loro nei lunghi viaggi spaziali».