Sette, 26 aprile 2025
Stefano Bollani: «Non ho l’orecchio assoluto di mia figlia Frida, che sente la nota emessa dal phon e dalla lavatrice. Ai miei concerti classici si può tossire e scartare caramelle»
«Io eclettico? Sì, mi pare che il termine eclettico mi definisca bene. Ora non so quale sia il suo contrario, dovremmo guardare il dizionario, ma nel dubbio mi tengo stretto eclettico. Secondo me il contrario non è bellissimo, probabilmente è riferito a chi fa sempre la stessa cosa». Controlliamo subito. Dizionario Hoepli: «Eclettico: duttile, versatile, poliedrico, multiforme, eterogeneo, vario, composto. Contrario: uniforme, monotono, chiuso, limitato». «Visto?». Ma definire eclettico Stefano Bollani è persino limitativo. In ordine non troppo sparso: musicista, compositore, cantante, pianista jazz e talvolta classico, entertainer, conduttore televisivo, attore, scrittore. Showman, prima di tutto.
«Sono nato showman. Avevo 5 anni e le idee chiare: volevo salire su un palco. Mi sono innamorato di Celentano e ho detto a mamma e papà: da grande voglio fare il cantante. Mamma stonata come una campana, papà ascoltatore di canzonette, eppure non hanno fatto nulla per ostacolare il mio sogno, anzi. Mi hanno semplicemente suggerito: intanto studia uno strumento che ti lasci libera la bocca. Non ho avuto dubbi tra pianoforte e fisarmonica».
Esisteva anche la chitarra, volendo.
«È vero, ammetto che per un bambino non è una scelta facilissima, nel senso che mentre la chitarra ti gratifica subito, impari quei quattro accordi e via, il pianoforte ha una tecnica completamente differente. Ma per me era un gioco, non mi sono fatto nessuna di queste domande. Ero semplicemente attratto dall’idea di stare sul palco, poi dello strumento mi sono innamorato con calma».
E dopo Adriano Celentano è arrivato Renato Carosone.
«Che era un Celentano con l’aggiunta del pianoforte: suonava in modo fantastico, cantava, intratteneva e divertiva il pubblico».
È vera la storia della letterina?
«Come no! Gli scrissi per dirgli che ero un suo fan e che avevo imparato tutti i suoi pezzi. E lui mi rispose: studia il blues, è la base della musica moderna».
Sarebbe bello capire che cos’hanno davvero in comune Celentano e Carosone.
«Sono due riferimenti, poi col tempo ne sono arrivati altri, penso per esempio a Oscar Peterson e mi chiedo: che cos’ha in comune con Celentano? In effetti però per mia fortuna io ho inseguito la varietà fin dall’inizio: come tutti i bambini della mia generazione ascoltavo lo stesso disco tante volte perché non avevamo internet, ma poi a un certo punto mi veniva voglia di qualcosa di completamente diverso, quindi ero un acquirente bulimico. Frank Zappa e un sacco di altre cose le ho scoperte da solo, vagando nel negozio di dischi, e nessuno mi aveva detto cosa prendere».
Bulimico è un termine interessante.
«In realtà più che bulimico mi sento curioso».
Ed eclettico.
«Decisamente eclettico».
Giusto per fare un esempio, l’estate di Bollani sarà un collage di otto progetti diversi sparpagliati su una trentina di date. Può bastare? Ah no, scusate: qualche presentazione qua e là de Il tempo della stravaganza, il suo libro appena pubblicato (dove di musica non si parla). Verrebbe da chiedersi come riesca a star dietro a tutti questi rivoli di creatività, in un mondo come quello musicale così standardizzato dove i tour, per esempio, sono una scaletta predefinita di canzoni, sempre lo stesso ordine, sempre la stessa esecuzione, variazioni zero o quasi.
«In pratica la mia rappresentazione dell’inferno: l’idea di dover fare gli stessi pezzi tutte le sere, e attenzione, nella stessa maniera… Mi devo dare l’opportunità di reinventarli ogni sera, in base all’umore del momento. Suono nel presente, quindi se ho un po’ di mal di testa sto suonando anche il mio mal di testa. Altrimenti cosa volete da me? Volete un’intelligenza artificiale o volete un essere umano?».
Si è mai chiesto se il suo pubblico non preferirebbe a volte andare più sul sicuro?
«Credo di essermi creato un pubblico che è contento quando tu esci dai ranghi. Io ho iniziato suonando il jazz e il rapporto del musicista jazz con il pubblico è questo».
Che poi, musicista jazz... Nei concerti di Bollani passa di tutto. Si sta persino permettendo, caso più unico che raro per lui, di sedersi al pianoforte per eseguire diciotto preludi da lui scritti con lo spartito davanti. «Per rispetto verso l’autore…» spiega con autoironia agli spettatori. Aggiungendo: «Poiché si tratta di musica classica, dovreste rispettare le due regole del pubblico della classica: applaudire solo al termine di tutti e diciotto i preludi. Tra l’uno e l’altro invece potrete tossire o scartare caramelle». Per poi concludere: «Quando torneremo al jazz, potrete applaudire quanto vi pare, anche durante l’esecuzione. Anzi, la vostra partecipazione è caldamente consigliata».
Ma che cos’è il jazz, alla fine?
«Mettere insieme tutti i generi, per esempio. Quando uso la parola jazz non sto indicando un genere ma un linguaggio, il linguaggio dell’improvvisazione e quindi della libertà».
Le sue improvvisazioni, il «ditemi dieci titoli di canzoni e ve le metto insieme», l’hanno resa un musicista virtuoso.
«Virtuoso?».
Non lo è?
«Se me lo dicono sono contento, perché in effetti credo che sia un complimento, ma credo anche di non meritarlo del tutto perché c’è gente in giro che fa cose che per me sono stupefacenti, quindi evidentemente non sono ancora un virtuoso. Però la questione è sul termine virtuoso, che di per sé è solo positivo: chissà perché storicamente è diventato sinonimo, anche se non ce lo diciamo, di velocità fine a se stessa. Fra musicisti dirsi “fai il virtuoso” posso capire che non sia carino, ma è una semplificazione».
Le improvvisazioni: quanto è necessario avere orecchio musicale per farle?
«Guarda, ognuno ha i mezzi che gli servono per esprimersi e dire quello che deve dire, Thelonious Monk non suonava bene il pianoforte però aveva la tecnica necessaria per fare quello che doveva fare. Io penso di avere l’orecchio necessario, non ho l’orecchio assoluto come Frida, per esempio».
Frida Magoni, sua figlia. Quel che si dice una figlia d’arte. Lei ha l’orecchio assoluto?
«Lei sì. Capita che le chieda le note di un accordo che non riesco a cogliere.
Lei riesce a sentire la nota emessa da un phon, da una centrifuga della lavatrice. La senti? Possibile che non la senti? È un fa diesis. E io: boh…».
C’è una grammatica nell’assemblare dieci canzoni che non c’entrano niente una con l’altra?
«Non ho fatto esercizi e non ho elaborato un metodo, in realtà, poi sicuramente avrò delle cose che ripeto, a volte, dei meccanismi, però alla fine le note sono quelle lì, le stesse sette con cui sono composte Heidi o Stairway to Heaven o la Sagra della Primavera. Sono semplicemente in un ordine diverso, quindi una volta che trovi una chiave di entrata in queste melodie e una chiave di uscita, a quel punto puoi navigarci dentro, uscire, entrare, uscire, entrare, costruire ponti fra la Ragazza di Ipanema e la Quinta di Beethoven. È un po’ la teoria dei sei gradi di separazione».
Nella vita lei programma o improvvisa?
«Un mix, come nella musica. Anche nella musica dipende dai progetti».
E poi c’è la sua parte cabarettistica, le imitazioni. Non teme possano sminuirla come musicista?
«La partenza, ti ricordi? Io volevo stare su un palco, quindi per me fare le imitazioni, sentire la gente che ride è forse una delle cose che mi piaceva di più da bambino. Da bambino io facevo il possibile, facevo le scenette in classe, facevo le battute alle maestre, non solo per essere irriverente ma per far ridere, la maestra anche. Quindi è una vocazione, mi piace molto».
Non solo musica. Parliamo di tv, parliamo di libri: il suo metodo di lavoro è sempre lo stesso o cambia ogni volta?
«Sono procedimenti completamente diversi: il programma tv per dirne uno, è un progetto collettivo. È vero che io e Valentina abbiamo ideato tutto, poi però ci sono 40 persone con cui devi confrontarti. Scrivere un libro invece è l’esatto opposto: è una cosa che faccio da solo nei momenti in cui ho voglia di farlo. Il tempo della stravaganza è il risultato di cinque anni e di un calderone di appunti, poi a un certo punto ho trovato una chiave e li ho spremuti dentro. Ed è interessante il fatto che non sei su un palco, non suoni, ti cimenti in una cosa che parti da zero, che hai un nome ma il nome in certi momenti può essere un boomerang».
È il rischio dell’eclettismo.
«E anche il suo bello».