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 2025  aprile 28 Lunedì calendario

Intervista a Max Cavallari

Parlando di lui usa spesso il «noi», come se Bruno Arena ci fosse ancora e fosse sempre a suo fianco. È emozionante sentire Max Cavallari, colui che porta avanti la tradizione dei Fichi d’India, ricordare chi non c’è più. Bruno era un amico, un compagno d’arte, ma anche, come vedremo, molto di più.
Max, domanda inevitabile: quanto le manca?
«Tanto, ma Bruno è sempre presente “tramite” me: la gente viene ai miei spettacoli e riscopre i personaggi dei Fichi d’India. Ho acquistato il suo Maggiolino giallo, vado a fare le serate con quell’auto. Certe amicizie non ci sono più. Anzi, le amicizie di oggi fanno apprezzare quanto è bella la solitudine».
Legati sul piano umano, non solo professionale.
«Forse nessuno sa che Bruno era pure mio cognato: ho avuto una figlia dalla sorella di sua moglie.
Sono padrino di suo figlio, lui della mia Alice, sua nipote. Ci trovavamo a Natale e ai compleanni, per il resto non ci frequentavamo molto perché eravamo come il più e il meno delle batterie. Però lui era lo zio della mia bimba, che oggi ha 32 anni».
Lei dice di essere un uomo del Sud nato al Nord.
«Le radici di papà sono a Maropati, vicino a Gioia Tauro. La sua battuta è sempre stata: “Dopo 7 minuti dalla nascita sono venuto qua”. Mamma era di Milano, i genitori erano di San Severo. Parlava pugliese, di milanese aveva poco».
Può spiegare la vostra comicità?
«Era elementare, di pancia. Era avanspettacolo: facevamo ridere con poco. Tutti i personaggi sono nati da gente del popolo, eravamo clown senza regole. Tutto questo oggi manca, ora la comicità è volgare».
Il Fico d’India rimasto non è spaesato, senza la spalla?
«Dopo il grave malore di Bruno volevo smettere. Ma quando andavo a trovarlo mi faceva capire che dovevo continuare. Gli amici sono scappati, i parenti anche, tranne i genitori. I fans mi hanno invece telefonato: sulla loro spinta ho ricominciato. Bruno è come se ci fosse ancora, tant’è che sono Max Cavallari dei Fichi d’India».
C’è una battuta indimenticabile?
«I tormentoni, come “ahrarara” o “tichi tic”: con quelle due battute mi sono fatto la casa.
Ahrarara nasce da Sergio Baracco, che vendeva gioielli e aveva la erre moscia, ci ha incantato, così anche noi facevamo i commercianti di pseudo pietre preziose: una volta Bruno andò all’ospedale perché si era messo un topazio finto nel naso e non riusciva a toglierlo».
Su quale comicità lavora oggi?
«Racconto i nostri personaggi, con aneddoti e retroscena. Chiudo con “Da soli mai”, canzone dedicata a Bruno scritta da Vincenzo Incenzo, l’autore di Renato Zero, e poi con il “tichi tic”: ora faccio il Fico più maturo».
Senza i film sareste stati meno famosi?
«Penso di no. Abbiamo sempre riempito i teatri, perfino di lunedì. La follia di Bruno e la nostra clowneria facevano presa, anche se poi i film di Natale e il “Pinocchio” di Benigni hanno aiutato. La gente ci voleva bene, non ce la siamo mai tirata».
Quali di questi film è più caro?
«Oltre a “Pinocchio”, “Natale sul Nilo”: navigare su quel fiume è magico. Facevamo ridere perfino dietro le quinte, è un film che ha generato ricavi per 85 miliardi di lire. I cinepanettoni non devono essere criticati, fanno parte della commedia all’italiana».
È vero che con uno dei primi ingaggi ha regalato a Bruno una bicicletta con le ruote bucate?
«Sì, era una Bianchi. Per ritorsione minacciò di scassare la mia. Veniva in bici a Cologno Monzese per partecipare a Colorado. Io che amo le auto arrivavo invece con una Porsche cabrio. A mezzanotte riportavo a casa lui e la bici. Un giorno capitò Pier Silvio Berlusconi. Guardò la Porsche e la bici e commentò: “Voi due guadagnate uguale?”
».
Arena diceva: «Facciamo le cose con amore: se un domani non funziona più, andiamo a lavorare».
«Io ho sempre lavorato: camionista, fabbro, meccanico; in stamperia sul tornio mi sono ferito a un occhio».
È vero che all’inizio non vi «fiutavate»?
«Ci stavamo sulle palle.
Bruno era come il ragazzo più grande che all’oratorio non ti fa giocare: era allenatore di basket e non mi voleva perché ero imbranato. In una sua squadra c’era uno che si chiamava Cavallari: faceva sempre canestro, ma Bruno non lo usava proprio per il cognome».
Perché Varese e il Varesotto hanno sfornato tanti comici?
«Boh, non so: forse perché c’era la centrale nucleare dell’Euratom a Ispra, dove vivo ora. È il luogo appena sorvolato da un drone strano... (risata). Ma forse anche perché siamo nella zona dei laghi: i comici matti abitano tutti sul lago. La mia prima casa è stata a Caldé: li mi sono sposato e lì ho avuto due figli».
Bruno era professore di educazione fisica, lei si è fermato alla terza media.
«Mi invitava a riprendere gli studi. Però io lavoravo da mio padre: aveva una fabbrichetta per calze da donna e non voleva che facessi il comico: “C’è da mandare avanti l’azienda”. Così organizzavo gli scioperi: sono stato cacciato, in senso buono. Poi è arrivata la crisi del tessile, De Laurentiis ci fece i contratti per i primi tre film e così salvai la ditta di famiglia».
La storia del 17, il numero odiato da Bruno Arena.
«La sanno in pochi. L’aveva cancellato: era la data dell’incidente che gli aveva lasciato i buchi in fronte. Quando arrivava il 17 del mese non faceva nulla. Si sentì male il 17 gennaio 2013: io me lo sono tatuato
, se sommi l’1 e il 7 risulta l’8, giorno in cui sono nato».
Perché avete scelto il nome Fichi d’India?
«Perché i fichi d’india sono pungenti fuori e dolci dentro».
Artisticamente vi siete conosciuti a Palinuro.
«Bruno era animatore dei villaggi Touring, io lavoravo in un’altra struttura e nella discoteca il Ciclope, dove c’era un ragazzino che saltava come un matto. Dissi: “Chi è quella scimmia?” Era Jovanotti... Conobbi Bruno: “Ah, tu sei quel cretino che non mi fa giocare?”. Inventava un sacco di balle ai turisti: “Qua sono passati Garibaldi e Napoleone...”. E tutti che annotavano...».

Com’era Benigni?
«Ci ha insegnato l’umiltà. Ci disse: “Vi mando l’autista”. Arrivò un vecchio con una Opel scassata. Dissi a Bruno: “Siamo su Scherzi a parte...”. Invece Roberto fa lavorare chi ha bisogno.
Ci scelse al Festival di Sanremo: io avrei fatto il Gatto, Bruno la Volpe, ci definì gli ultimi clown del millennio. Ci sfotteva: “Chissà se il Gatto e la Volpe oggi hanno imparato la parte: in tal caso ce la sbrighiamo in una decina di ore”. In realtà poi improvvisavamo quasi tutto».
Con Maurizio Costanzo fu una grande amicizia.
«Una delle persone più intelligenti che ho conosciuto: sapeva tutto. Dormiva tre ore a notte, quando andavamo assieme in vacanza creava un ufficio in piscina: aveva la malattia del lavoro».
Ci sono ancora veri comici?
«Quelli bravi sono pochi. Però oggi far ridere è difficile: sono tutti incazzati
, prima si rideva con poco. Zelig è sempre una fucina di talenti? No, quello che doveva dare, l’ha dato. Poi lì sono successe delle cose gravi nei confronti di Bruno, un giorno racconterò».
Il futuro dove porterà Max Cavallari?
«Ora sto raccontando Gilberto Govi e le sue commedie. Quando ero piccolo, mio nonno me lo faceva vedere e diceva: “Se un giorno farai il comico, ecco, segui lui”. Spero di fare sempre più teatro, il cabaret è come una bella donna, da lasciare prima che ti lasci lei».