La Lettura, 27 aprile 2025
Jonathan Lethem. Quel che resta del sogno
Se il grande romanzo americano fosse più di un’aspirazione rincorsa avidamente da scrittori ed editor e più di un concetto filosofico nel quale si sono arroccati critici e professori, probabilmente avrebbe questo incipit: «Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza». Sono le prime parole di Underworld (1997) di Don DeLillo, romanzo dove la verità non esiste perché è in mille personaggi diversi, romanzo corale, sinfonia americana delle lettere. La lingua che parla è l’americano, ma quello che dice non si può capire se non dopo avere intrapreso un viaggio in un mondo di ombre. Fu lo stesso DeLillo a confessare che diventò scrittore «per imparare a pensare» e che aveva un’idea del perché diventò scrittore ma non sapeva se crederci veramente. Una verità, semplicemente, non esiste: è il prodotto di un collettivo, è la risposta del mondo alle tragedie del mondo.
Jonathan Lethem, maestro contemporaneo della narrativa, scrittore di New York come DeLillo, ha inaugurato una nuova stagione della sua splendida carriera letteraria proprio con un esperimento di autofiction collettiva: Brooklyn Crime Novel, affresco corale di uno dei più tosti e affascinanti distretti di New York, che sta per uscire in Italia da La nave di Teseo. Brooklyn Crime Novel è un incrocio tra memoir e fiction, nel quale Lethem interseca, saltellando avanti e indietro nel tempo, un caleidoscopio di storie di gente comune – 124 brevi capitoli —, soprattutto ragazzini alle prese con la vita di strada e con l’ombra lunga delle dinamiche razziali, chiedendosi che cosa è accaduto al luogo nel quale è venuto al mondo (Lethem è cresciuto in una comune nel quartiere di Gowanus, figlio di genitori bohémien). Il titolo rimanda a un crimine: e di crimini in questo romanzo ce ne sono parecchi, materiali e spirituali. Uno su tutti: la gentrificazione, anche se Lethem, in questa intervista a «la Lettura», tiene a ristabilire il vero peso della parola.
Dopo «Brooklyn senza madre» (1999) e «La fortezza della solitudine» (2003), nei quali ha rievocato l’infanzia, ora torna a Brooklyn, a quella che è stata casa prima di trasferirsi in California, dove insegna Scrittura creativa al Pomona College, ruolo che ricoprì il suo amico David Foster Wallace. Perché ha deciso di ritornarci, più di vent’anni dopo?
«Brooklyn senza madre era una dichiarazione d’amore. Con La fortezza della solitudine ho confrontato paure e misteri, ho usato tutti i mezzi a mia disposizione per dire come mi sentivo, per comunicare ansie e difficoltà. Tutto quello che volevo dire era contenuto ne La fortezza della solitudine. Vent’anni dopo, mi sono accorto che non è così. Innanzitutto perché non tutto quello che incastri in una cornice rimane immobile: Brooklyn è cambiata, ha continuato a trasformarsi ed evolversi. Ciò che chiamiamo gentrificazione ha raggiunto livelli selvaggi, che non avrei mai immaginato. Brooklyn è un paradiso ora. Quando sono cresciuto io, negli anni Settanta, il periodo nel quale è ambientato il libro, poteva essere una sfida stare al mondo. Ora qui vivono le star del cinema e della televisione. E sono cambiato anch’io in questi vent’anni. Ho aperto nuove porte, che mi hanno permesso di conoscere nuove emozioni e stati d’animo».
Perché, per affrontare questo nuovo vocabolario di emozioni, aveva bisogno di tornare a Brooklyn, alla sua infanzia? Che cosa significa per uno scrittore guardare indietro, scavare nella memoria e tornare a galla con un mucchio di ricordi?
«Mi ha mosso una sensazione strana, all’inizio pensavo fosse uno scherzo. Mi è successo per la prima volta una decina d’anni dopo avere scritto La fortezza, quando il libro era stato adattato come opera teatrale a Manhattan. Il fatto che ci fossero attori sul palco che interpretavano i miei personaggi mi ha costretto a rivisitare il romanzo, a pensarlo in modo diverso. La musica ti permette di estraniarti, di uscire da te stesso. Ti porta avanti e indietro nel tempo. Ho capito che il mio lavoro su Brooklyn non era ancora finito».
Ogni capitolo di questo libro è come se vivesse di vita propria. I personaggi non hanno un nome. Le storie quotidiane sembrano pezzi di vita strappati alla memoria. La verità è nella bocca di chi parla in quel momento. Anche nel suo romanzo precedente, «L’Arresto» (2020), non indicava la via per la verità ma chiedeva al lettore di concentrarsi e di trovare nuove storie da ascoltare.
«Uno dei protagonisti di questo libro è la memoria collettiva. La strada è custode dei ricordi, un gruppo di ragazzini condividono esperienze, fino a confondersi. A un certo punto si chiedono: è successo a te o è successo a me? Ero uno spettatore o sono stato la vittima di un crimine? O forse l’ho commesso io? Forse sono io il criminale. Quest’idea che le storie appartengono a tutti e a nessuno allo stesso tempo è diventata uno dei temi chiave. Il ragazzino al centro de La fortezza della solitudine è come David Copperfield. Crescere a Brooklyn sembrava un racconto di Charles Dickens. In Brooklyn Crime Novel ho tolto quel ragazzino e l’ho sostituito con tutti i ragazzini. Ecco perché non hanno nomi. Qui ci sono esperienze mitiche e collettive. L’Arresto e Brooklyn Crime Novel, romanzi che a prima vista sembrano molto distanti tra loro, soprattutto perché il primo è ambientato in un futuro distopico e questo guarda a un passato reale, hanno una grande connessione. E devo anche a DeLillo una lezione straordinaria: l’individuo si dissolve nella storia, ognuno di noi sperimenta sé stesso nella storia, è come se la nostra personalità si sciogliesse in un’enorme esperienza collettiva».
Veniamo a un tema portante del romanzo: la gentrificazione, quel processo che trasforma un’area urbana da popolare a borghese dopo che persone benestanti cominciano a trasferirsi lì.
«Con il tempo ho cominciato a credere che la parola gentrificazione sia una di quelle strane parole che tutti usano e di cui tutti credono di conoscere il significato, ma che invece potrebbe non significare nulla di concreto. Prenda la parola multitasking, come se si potesse fare più di una cosa alla volta. Si può passare da una cosa all’altra, smettere di fare una cosa e farne un’altra. Non esiste il multitasking, non si possono fare più cose contemporaneamente. Non è una cosa reale. La gentrificazione è diventata un modo per definire un’esperienza in realtà indefinibile, è una sorta di termine mitico o magico. Ripeto ancora una volta: per sapere quanto è cambiato un posto come Brooklyn bisogna scavare nelle storie delle persone. Non posso pensare che esista un solo termine che racchiuda il processo che ha modificato un quartiere o una città».
Gli anni Settanta del libro sono un periodo difficile, la vita che esce da queste pagine non fa sconti.
«È l’epoca del grande disincanto, forse un’epoca dove si può ancora assaporare la magia degli anni Cinquanta, i resti del boom del dopoguerra, i resti del senso di possibilità, le briciole della nuova frontiera. Ci sono sensazioni ancora vivide nella mente degli americani negli anni Settanta. Sensazioni che verranno portate via centimetro dopo centimetro dalle politiche di Ronald Reagan. È come una porta che si chiude sbattendo. Ma l’incanto c’è ancora in quegli anni. Possiamo ancora assaporarlo, anche se lo stiamo perdendo. Gli anni Settanta sono gravidi di questo dolore determinato dalla resa, dalla fine di una sorta di convinzione utopica. L’idea di possibilità e la bellezza della fede nel sogno americano, nel mondo utopico del dopoguerra, sono state distribuite in maniera ingiusta tra gli abitanti di questo Paese».
Ne «Il Detective selvaggio» (2018) se ne è andato dalla città per fare tappa nel deserto americano. Era la prima volta che Donald Trump veniva eletto alla Casa Bianca e quella sembrava una fuga dalla realtà. Ora torna alla città, tra il cemento e i marciapiedi, dove Trump ha costruito la sua popolarità.
«Trump è uno dei tanti problemi di New York e allo stesso tempo un prodotto di New York. È un prodotto della periferia, più o meno della mia generazione. È stato un ragazzino bianco bullizzato che voleva diventare re di Manhattan. La sua elezione è il frutto di una vulnerabilità di massa, l’America ha riportato a Washington un mostro carismatico».
Nel salutarla le chiediamo se vuole condividere un ricordo di Paul Auster, scrittore di Brooklyn, suo amico, scomparso il 30 aprile di un anno fa.
«Paul è stato un amico magnifico. Credo sia stato sottovalutato all’interno della cultura letteraria americana. Aveva una vena molto più europea. Paul era un narratore di razza, aveva un’attitudine esistenzialista. Era allo stesso tempo molto europeo e molto attaccato a Brooklyn. La sua grandezza è dispersa nelle opere che ha lasciato».