Corriere della Sera, 27 aprile 2025
Intervista a Cristina Comencini
Cristina Comencini, l’ultimo suo lavoro come regista è Il treno dei bambini, tratto dall’omonimo romanzo di Viola Ardone. Il film, che si trova su Netflix, sta avendo un riconoscimento straordinario, quasi trenta milioni di «views». Si aspettava un tale gradimento?
«Mi sembra incredibile, anche perché chissà quante persone ci sono davanti a uno schermo... Ho provato a dare una ragione».
E quale?
«Il tema del film e, prima, del libro, è cosa resta dopo la guerra. Le guerre non finiscono quando si smette di combattere, i disastri che fanno nelle relazioni affettive continuano nel tempo. Si perde il valore dei contatti umani, della maternità, della cura dei bambini. Lo testimonia la foto del bambino di Gaza con le braccia amputate che ha vinto il World Press Photo. Cosa raccontiamo ai piccoli?».
La pellicola è stata vista anche da molti bambini.
«È molto richiesta dalle scuole. Sono andata a presentarla in un istituto ai Quartieri di Napoli, gli studenti sono stupendi. Uno di loro mi ha detto: “Erano tanto poveri, molto più di noi. Però andavano fino al nord, noi non ci muoviamo più”».
Meglio il cinema in piattaforma o in sala?
«Questo film è stato visto in italiano, in tutto il mondo. Portare le persone in sala è una cosa bella, anche difficile. I sistemi si affiancano. Il mio sforzo è fare film autentici. Come diceva mio padre: “Io non cambio”, che girasse Pinocchio per la tv o grandi film per il cinema. Bisogna fare sempre tutto al massimo livello di verità e bellezza».
Lei ha ricevuto molti premi, con La bestia nel cuore ha avuto una nomination all’Oscar. Ci si abitua al successo?
«La nomination fu una grande gioia, inaspettata, stavo lavorando a un documentario sul Ruanda. Il successo è importante e fa molto piacere. Ma questa professione è un ottovolante, impari che devi essere contento quando il successo c’è, perché ti può mollare da un momento all’altro. Per esempio c’è un mio film che ho molto amato, Quando la notte, che non è andato bene per niente».
È stata una delle prime e più famose, oggi sempre più donne e attrici stanno passando alla regia con successo. Cortellesi, Scarano in questi giorni, ma non solo. Stanno cambiando le cose?
«Sono dalla loro parte fino alla morte. Finalmente il cinema si è aperto alle storie delle donne, rappresenta una nuova ricchezza di possibilità. Paola, prima di essere una grande regista, è stata una grande attrice, perfezionista, intelligente, simpatica, profonda. Il suo film sul voto delle donne nel dopoguerra illumina un pezzo di Storia da sempre raccontata solo dai padri. In questo fiorire ci sono Greta e anche parecchie candidature ai David: c’è Valeria (Golino, ndr), la Delpero con Vermiglio che è molto bello, c’è mia sorella».
Nel film di Francesca Comencini, che narra il rapporto con vostro padre Luigi durante il suo periodo di tossicodipendenza, lei non c’è. Si è sentita tagliata fuori?
«Noi quattro sorelle siamo una falange. Unite fin da piccole e lo siamo sempre state in tutte le cose della vita. Lei ci ha fatto leggere il copione. La scelta che ha fatto, di isolare la sua relazione con papà, un po’ come fece Bergman in Scene da un matrimonio, l’ho trovata originale e giusta. Altrimenti sarebbe stata la solita storia di un’adolescenza complicata. Le ho detto: “Vai tranquilla”».
Nessuna gelosia tra voi quattro?
«Un padre è diverso per ogni figlio. La nostra è stata una famiglia bellissima».
Si è sentita privilegiata?
«So di esserlo stata. Perché ho avuto quel padre e quella madre, e una formazione affettiva e culturale, e tanti libri. Siamo una generazione che ha lottato in varie forme per una giustizia sociale. Dovrebbe essere quello il lavoro della politica: azzerare le differenze di status e di ricchezza che oggi sono sempre più grandi».
È stata importante per lei la politica?
«Il mio unico, vero impegno politico è stato durante il femminismo. Laddove mi è stato chiaro che il pensiero delle donne – artistico, sociale, politico – era possibile se diventavamo un soggetto collettivo. È una concezione profonda che pervade la mia vita».
Concretamente?
«Io, in ogni caso, sono dalla parte delle donne. È normale che non ci si comprenda a volte, che ci sia concorrenza, però il senso del sostenersi e far cordata – molto chiaro agli uomini— non dobbiamo perderlo mai».
E come vede il ruolo di Meloni in questo senso?
«Io sono una donna della sinistra, anche se non estrema, lei è una donna conservatrice di destra. Non condividiamo il pensiero politico. Però, la sua parte la sta facendo bene».
Giovanna Mezzogiorno, una delle sue attrici più brave, ha espresso sofferenza per come è stata trattata dal cinema. Cosa pensa?
«Dopo La bestia nel cuore è stata protagonista nel film precedente a Il treno dei bambini, Tornare. Era un momento complicato poiché lei si sentiva isolata. Giovanna è bravissima ed è stata una delle più belle attrici del cinema italiano. E ha fatto bene a dire che, per colpa di qualche chilo preso, hanno smesso di chiamarla. Finalmente, oggi, l’estetica inizia ad avere un’influenza diversa per le interpreti».
Ha avuto suo figlio Carlo Calenda a 18 anni. Ci sono fotografie in cui lei sembra quasi più giovane di lui. Ride.
«Ma no, lui è giovanissimo. È dimagrito ed è bellissimo».
Come ha fatto?
«Lo desiderava molto e ce l’ha messa tutta. Ha “smesso” di mangiare».
Siete cresciuti insieme?
«Completamente. E subito dopo è nata Giulia. Poi è arrivato Luigi e poi è nato il figlio di Carlo. Ho passato la giovinezza con i bambini, ho cresciuto in pratica 4 figli. Me li portavo dappertutto, anche all’università a dare gli esami».
Diciassette anni, femminista: non pensò di abortire?
«Certo. Ma mi era già capitato di abortire un figlio di quest’uomo che amavo e che poi è diventato mio marito. Avevo sofferto molto. Non volevo ripetere».
Pensa che la legge sull’aborto sia in pericolo?
«Non la toccheranno. Sanno che un miliardo di persone scenderebbero in piazza».
Questa sua giovinezza «perduta», un po’ la rimpiange?
«È andata così. Ne sto scrivendo nel mio prossimo romanzo che uscirà per Feltrinelli in ottobre, si chiama L’epoca felice, e parlo dell’adolescenza, che è un momento fondamentale dell’esistenza, anche con quelle mattane... e poi però ti calmi, e ti costringi in ruoli che non sono tuoi, e perdi la tua identità. Ma la vita ti sorprende, e ti porta anche dove non vuoi. Avere i figli così presto mi ha dato la ricchezza di tutto ciò che ho scritto».
La vita l’ha sorpresa anche con un amore maturo, con il documentarista francese François Caillat?
«Ci siamo incontrati al Festival du Film Italien de Villerupt, in Lorena. Io non ci volevo neppure andare, era un periodo in cui ero un po’ giù».
E invece... colpo di fulmine?
«Ci siamo scritti molto, prima. Viviamo tra Roma e Parigi, la nostra vita è complicata da continui spostamenti. Ma forse anche rallegrata. Sono due città stupende e poi si è riaperto questo amore, questo senso di coppia».
Innamorarsi da grandi ha la stessa intensità di quando accade da giovani?
«Nel nuovo libro i due protagonisti si incontrano adolescenti e si ritrovano, per ragioni incredibili, più avanti. C’è quell’impeto incosciente di quando sei giovane... ma a 60 anni sei libero dentro, non hai obblighi di figli, conosci i limiti della coppia e del sentimento. Ti lasci andare senza pericoli».
Chi o cosa le manca di più?
«Mia mamma. Era complessa ma, quando andavo in viaggio, la chiamavo sempre per dirle: “Sono arrivata”. Ci ritroveremo tutti nello stesso posto».
In paradiso?
«Non ho fede. Ma ho sempre pensato che non vediamo tutto ciò che c’è».