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 2025  aprile 26 Sabato calendario

Intervista a Giovanni Battaglin

«Ho visto grandi corridori mollare sganassoni in corsa a compagni non abbastanza servizievoli, ne ho visti altri aggrappati alle moto dei fotografi o avvinghiati ai gregari in salita, tipo Fantozzi nel film. Attaccavano e mollavano la presa sul pantaloncino di quei poveretti a seconda di dove guardava la giuria, che volentieri guardava il paesaggio. Quando quei grandi capitani capivano che il malcapitato era spompato e inutilizzabile, gli davano il colpo di grazia usandolo come fionda per lanciarsi in avanti».
Giovanni Battaglin, nel 1981 lei vinse il Giro d’Italia e 48 giorni dopo quello di Spagna, roba che nemmeno Merckx in così poco tempo. Maglia a pois al Tour, nei dodici anni della sua carriera il ciclismo era davvero il Far West?
«Un po’ sì. La volata del Mondiale di Valkenburg del 1979 è su YouTube: la riveda».
La famosa «truffa dei tulipani».
«Vinse l’olandese Raas che aveva pedalato chilometri al traino delle moto della tv olandese e che a duecento metri dal traguardo mi spinse a terra contro le transenne. Un gesto ignobile, plateale. Ma la giuria (presidente olandese) non batté ciglio».
Lei era troppo buono per quel Far West?
«O troppo fesso».

Nel 1972, quasi sconosciuto, vinse il Giro d’Italia dei dilettanti. Da dove saltava fuori?
«Da San Luca di Marostica, nel vicentino. Un cocuzzolo dove tutto è in pendenza: strade, piazze, case. Da bambini costruivamo le bici con i pezzi di quelle vecchie e poi su e giù per il paese. Altro da fare non c’era».
Tradizione familiare?
«Zero. Papà era un bombarolo, piazzava esplosivi per far spazio agli invasi delle dighe, mamma casalinga. Un giorno che vicino a San Luca passava una corsa, un vicino di casa mi disse: “Battaglin, questi qui tu li batti tutti”».

E lei?
«Lo presi in parola, mi iscrissi a una squadra, la Junior Nove, e cominciai ad allenarmi. Avevo 18 anni».
Risultati.
«Sempre in testa, mai vincitore perché in volata ero nullo. Una volta guadagnai minuti in fuga da solo ma prima del traguardo mi superarono in tre sbucando da una strada parallela. Aveva sbagliato strada la moto staffetta, squalificarono me. Prima ingiustizia in carriera».
Poi?
«Cominciai a vincere e tanto. Nel 1972 prendevo 400 mila lire al mese contro le 60 mila di un operaio.
Nel 1973 passai professionista con Jollj Ceramica e mi spedirono al Giro d’Italia. Quinta tappa: primo Merckx, terzo io. Nona tappa: primo Merckx, secondo io. Alla fine, primo Eddy, secondo Gimondi, terzo io».
Cosa ricorda della vittoria al Giro di otto anni dopo?
«La Piazza degli Scacchi di Marostica, così piena che si poteva camminare sulla testa delle persone senza cadere. Ancora oggi incontro gente che dice: “Quel giorno io c’ero”».
Lei i gregari come li trattava?
«Da compagni, spesso da fratelli come Luciano Loro».
Merckx e Gimondi, invece?
«Eddy più li consumava più lo adoravano: carisma mostruoso come la sua classe. Felice era meno ruvido ma se non gli obbedivano mordeva».
Altri sceriffi?
«Con Moser non si scherzava, Saronni era duro ma più educato e aveva qualche pudore nel farsi spingere».
Sempre di spinte si parla.
«All’epoca usava così. Io mi incazzavo, le trovavo ingiuste, odiose. Un altro senza peccato era Tista Baronchelli: gran corridore a cui Merckx strappò il Giro per soli 12”. Con più cattiveria ne avrebbe vinti due di Giri. Ma era un cuore puro, troppo puro per quel mondo».
Le giurie?
«Occhio di riguardo per i corridori amati da pubblico e giornalisti. Lombardi e toscani, più disinvolti, partivano avvantaggiati. Noi veneti silenziosi e ruspanti no».
E Moser?
«Di Francesco sono amico: siamo coetanei, cresciuti assieme, ci si vede nelle ricorrenze. Ma se nel 1984 non avessero sostituito lo Stelvio con il Tonale, simulando l’impraticabilità per neve, non avrebbe mai vinto un Giro pur costruito per lui e dove le spinte erano all’ordine del giorno. Detto questo, talento enorme e grinta infinita».
E Battaglin?
«Scalatore nato, andavo forte a cronometro. Ho vinto tanto, avrei vinto tantissimo senza sfiga e in un ciclismo più corretto».
Scalatore nato?
«Vuol dire che quando la strada sale ti scatta qualcosa dentro che ti obbliga ad andare in fuga, che i muri non ti fanno paura, che quando ti sembra che non si possa soffrire più di così, tu soffri di più. Ci nasci così».
La sfiga?
«Ricorrente. Agli Italiani di Aci Trezza venni centrato da una bici volante: nove fratture, mi fasciarono come una mummia, mesi per riprendermi.
Affrettavo i tempi del recupero: correvo in piccole squadre e gli sponsor avevano bisogno di me. Al Giro del 1983 il medico della squadra mi portò di peso in clinica: ero giallo come un canarino, avevo una transaminasi da terapia intensiva».
Altro?
«Ad una Tirreno-Adriatico, sul “muro” di Ferentino, Beppe Saronni usò come fionda il povero Luciano Conati che rinculando mi stese rompendomi lo scafoide».
C’era qualcosa che rendeva più dolce il ciclismo spietato dei Settanta?
«I circuiti, oggi scomparsi. Dopo Giro e Tour, giravamo due mesi tra Belgio, Francia e Olanda per le kermesse serali con migliaia di spettatori paganti. Ne correvo anche due in un giorno, poi saltavo su un aereo, disputavo una gara pre-mondiale in Italia e tornavo in Belgio la sera stessa».
Come funzionava?
«L’impresario stabiliva il tuo ingaggio, decurtato se non ti eri impegnato, dimezzato se ti ritiravi. A volte ci si metteva d’accordo perché vincesse questo o quello, sempre campioni, a volte c’era battaglia. Se partecipava Merckx, vinceva Merckx, sempre. I maggiorenti locali facevano a gara per ospitarci a casa e coccolarci. Era una vita da rockstar e guadagnavi bene».

Nell’estate del 1980 lei entrò nella storia del ciclismo ma non per una vittoria.
«In una corsa minore si doveva scalare il Valcava, salita bergamasca micidiale. All’epoca il cambio aveva solo due corone di moltiplica davanti e sul ripido ti piantavi. Mi venne un’idea: smontai il cambio, misurai gli spazi tra le corone con il calibro, feci uno schemino su un foglio di carta e indicai al meccanico, Giuliano Belluomini, come inserire una terza coroncina per spingere un rapporto più agile».
Lui?
«Disse che era fattibile ma che testarla in gara sarebbe stato folle: siccome i cavi non avevano abbastanza gioco, cambiando avrei dovuto dare un colpetto con la mano al deragliatore senza rallentare per non far incastrare la catena».
Come andò?
«A pochi metri dall’inizio della salita abbassai la testa all’indietro fino a terra, come facevo da ragazzino quando ci sfidavamo a raccogliere i tappi dall’asfalto senza sbilanciarci e diedi il famoso colpetto al cambio. Decollai. La “tripla” divenne uno standard industriale».
Lei aveva avuto un grande maestro.
«Ero il pupillo di Tullio Campagnolo, genio della meccanica e dell’industria italiana. Corridore in tempi in cui le bici non avevano il cambio, se lo inventò lui dopo aver rischiato di congelare sulla salita del Croce d’Aune per una ruota bloccata. Discuteva di affari in dialetto, in fabbrica si era fatto costruire l’ufficio con una vetrata sul corridoio dove gli operai, centinaia, passavano a timbrare il cartellino per fulminare con lo sguardo i ritardatari. Fino all’arrivo dei giapponesi, progettò e realizzò i cambi di tutte le bici del mondo».
Lei costruisce bici.
«Da oltre quarant’anni, poche e di alta gamma: le vendo quasi tutte all’estero con il marchio Officina Battaglin. Gli altri le fanno in carbonio, incollando i tubi, io in acciaio saldandoli a fiamma come si faceva una volta. Eravamo corridori d’acciaio in anni di piombo e queste erano le nostre biciclette».
Gli affari come vanno?
«Bene, ma con un cruccio. Quella che vede in laboratorio è una saldatrice al laser, lo stato dell’arte. L’ho comprata e pagata cara, ma non trovo chi voglia utilizzarla. Costruire bici è un’arte, servono pazienza e passione per imparare ma di giovani disposti a farlo non ne trovo proprio».