Specchio, 27 aprile 2025
Intervista a Giulio Beranek
Outsider lui. Outsider il suo personaggio. Ci sono ruoli, facce e attori che hanno il sapore della rivoluzione: un punto di vista zingaro sulla vita, fittizio solo suo malgrado, che inneggia al cambiamento – creativo, sociale, culturale. Proprio come il Gerri di Giulio Beranek: il primo poliziotto rom che, dal 5 maggio, farà irruzione sull’ammiraglia Rai nell’omonima serie crime. «Auguro buona visione a Matteo Salvini: magari si ricrede», scherza Beranek, «Gerri è uno di quelli che si è salvato dalle ruspe». Lo dice con orgoglio perché lui è stato un rom per tanti anni. Anche se non lo era affatto. Nato, in una roulotte, a Taranto (quindi italianissimo), è figlio di una delle più famose famiglie di giostrai: i Monti Condesnitt. Suo padre è di origini cece, sua madre spagnola. «Gli esercenti dello spettacolo viaggianti sono piccoli imprenditori, ma agli occhi di tutti ero solo uno zingaro: a scuola i compagni mi davano del rom, e non c’era verso di fare loro cambiare idea». Ai suoi coetanei non andava bene che lui cambiasse sempre città, o che vivesse in un campino («si dice proprio così perché a differenza del camper, che odio, non è idoneo per vivere nei campeggi»). E poi c’erano quei suoi tratti duri, e l’aria sveglia di chi a 13 anni ha già visto tanto, persino troppo, del mondo. Beranek è passato attraverso tutto questo: i pregiudizi e il sapore inebriante della libertà; «l’ispessimento», come lo chiama lui, e il respiro ampio della recitazione; l’epoca d’oro dei giostrai e il suo tramonto; l’anonimato e la fama. Così, quando si è cercato il giusto volto per Gerri, la scelta non poteva che cadere su di lui: l’attore di Doppio Passo, L’arminuta, Christian, Briganti (solo per citare alcuni suoi lavori) che, nonostante i successi, tiene ancora come foto profilo il suo campino. «È la mia carta d’identità».
Ha mai desiderato una vita più facile?
«Da bambino no, perché era l’unica normalità che conoscevo. Ma nemmeno in seguito. Sono grato della vita che ho avuto perché è stata molto formativa. Mi ha messo in contatto, fin da bambino, con migliaia di persone, di tutti i tipi. Mi ha insegnato a relazionarmi con ciascuna di loro, svelato usi e tradizioni che forse, a 15 anni, non sono così note. Io invece a quell’età avevo già girato mezza Europa. Una parte di me sentiva che, rispetto ai miei coetanei, ero diverso perché riuscivo a leggere certe situazioni prima di loro».
La sua biografia “Il figlio delle rane” inizia però con la maestra che lo lascia in mutande e canotta perché non aveva il grembiule pulito.
«Ho detto che è stata una vita bella e formativa, non facile. Quell’episodio successe a Modugno: per fortuna il corpo docenti degli altri paesi che ho girato era più accogliente. C’era sempre l’insegnante che ti guardava di sottecchi ma alla fine riuscivo a farmi voler bene».
Ruffiano?
«No: semmai educato, chiuso. Un bambino abituato ad osservare, e a farsi guardare. Apparivo come anestetizzato dalle emozioni quindi suscitavo negli adulti un desiderio di protezione. Con i compagni di classe è stata più dura: per loro noi eravamo zingari, non interessava che i giostrai facessero un’attività sacrificata, che eravamo tutti italiani. No. Era un ragionamento troppo complesso, che necessitava di una curiosità di partenza che non esisteva. C’era solo voglia di arrivare e bullizzare, non di scoprire».
Si impara velocemente a difendersi dal mondo o si finisce per odiarlo?
«Per come sono cresciuto io (a tutta pratica e niente teoria), ho subito capito che o mi difendevo o mi schiacciavano. Anche perché quella era la logica che respiravo: il mondo delle giostre è maschio centrico. Se tornavo a casa piangendo non trovavo comprensione. Mi dicevano: “che fai, frigni come una femminuccia?”. Era un mondo dove ogni venerdì, sabato e domenica avrei assistito a una rissa perché c’era sempre l’avventore che non voleva pagare il biglietto e la polizia non interveniva mai. Quindi o lavoravi gratis, o ti difendevi. Prima di andare a dormire avevo sempre paura che qualcuno ci incendiasse la roulotte. Ne ho viste molte andare a fuoco. E spesso dei proiettili mi hanno sfiorato le orecchie perché ci sparavano per sfregio».
Per questo è andato via?
«La mia famiglia era sana, anzi, è stata fin troppo educata verso una Puglia che negli anni 80/90 era in mano alla criminalità. Però se cresci in mezzo alla strada è impossibile non ispessirsi: puoi anche non essere un bullo, come me, ma devi per forza difenderti. Quindi sì, sono fuggito da quel tipo di Puglia: quello che avevo intorno non era ciò che desideravo. I cinque anni filati a Roma, senza mai tornare, la dice lunga su quanto fossi grato di essere stato chiamato per il film Marpiccolo (la sua insegnante lo segnalò alla produzione del film nel 2008, ndr). Ricordo che dormivo sul letto di uno studio di produzione, in un ambiente per me claustrofobico: le mura, la tromba delle scale, tutto era fonte di attacchi di panico. Ma non sarei mai tornato indietro».
Come reagirono i suoi?
«Benissimo: come tutti gli esercenti della Puglia avevano capito che quel mestiere gioioso comportava ormai più litigi e problemi che altro. Mamma poi è sempre stata una cinefila».
Recitare ha rappresentato una forma di armistizio – se non di pace – con il mondo?
«In realtà né io né i miei ce l’abbiamo mai avuta con qualcuno. Semmai era il contrario. Quindi più che pace, questo mestiere mi ha regalato una maggiore tranquillità. È impressionante come le classi sociali possano cambiare la percezione che gli altri hanno di te: sono tornato, da attore, in quelle stesse scuole che mi stigmatizzavano come “il ragazzo della roulotte” e la gente mi accoglieva come il liberatore della patria».
Spera che anche Gerri possa cambiare un po’ lo sguardo degli italiani?
«Mi auguro che si parli del mio poliziotto rom come una possibilità concreta. D’altronde non è fantascienza: i rom che ci sono in Italia sono stanziali, di terza generazione. Non hanno niente a che vedere con quelli nomadi, che io ho conosciuto in Turchia, Grecia e Romania. Quelli vivono nelle tende, rubano i metalli, girano a cavallo e dopo che fanno razzie il giorno dopo si sono già spostati. Non li vedi più. Da noi è diverso. Ho amici di origine rom che si sono laureati in medicina o legge. Il mio Gerri potrebbe essere già realtà».
Lo vada a spiegare a Salvini…
«Voglio rassicurarlo: con Gerri entreremo nelle case degli italiani ma non ci saranno furti».
Cosa pensa della piega che sta prendendo la nostra politica in materia di accoglienza e immigrazione?
«Sono molto preoccupato, per non dire disperato, per quello che sta accadendo in tutto l’Occidente. Se ripenso alle lettere di Gramsci mi chiedo come ci siamo ridotti così: com’è possibile che siamo passati dai grandi statisti ed intellettuali dell’epoca all’attuale classe politica? Viviamo in un nuovo Medioevo: è un bombardamento di istigazione alla violenza e alla paura. A volte mi chiedo se ho fatto bene a mettere al mondo due figli: in che mani li lascerò? Come si fa a non aiutare chi fugge dalla guerra? Ecco, in questo la cultura rom ci è maestra: rom significa “uomo” perché loro non si definiscono come un popolo diverso dagli altri. Sono uomini, come me e te. Tutto è di tutti. Questa definizione di popolo è di per sé un farmaco contro le guerre».
Cosa servirebbe per riavvicinarci?
«La curiosità di voler scoprire l’altro. Nonostante io sia nato in un posto dove non c’era nulla, i miei mi hanno messo sempre dei libri in mano ed è stata la mia fortuna. Oggi invece ci sono i social, che ti risucchiano in una omologazione estetica, dove ci viene detto come dovremmo vivere: senza curiosità».