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 2025  aprile 26 Sabato calendario

Il maestro dei mostri

Se oggi la cultura giapponese ha presa su di noi è perché qualcuno ha disegnato un ponte di immagini che hanno legato quella terra all’Occidente quando i due posti erano separati dall’abisso. Lui si chiama Shigeru Mizuki e poco importa conoscerlo perché di certo lo si è visto o percepito o avuto in eredità: assorbito nell’extra large di una felpa con cappuccio oscurante, nel taglio di una frangia a tenda sull’occhio, nella ricerca di quel che non si vede, ma si avverte benissimo.
Per scoprire esattamente di che impronta (indelebile) si tratta c’è una mostra a Udine, inaugurata con il Far East Film Festival: «Mondo Mizuki, Mondo Yokai» ed è la prima volta che i lavori originali di questo maestro manga si vedono in Italia, l’unica in cui siano arrivate più di ottanta tavole in Europa dove il suo lavoro è stato esposto in una singola occasione. Arrivare in Friuli non è stato un viaggio semplice, il trasporto ha tenuto conto di una fragilità assoluta che andava costantemente monitorata. Altrettanto friabile è il nostro rapporto con un Oriente spesso incomprensibile, eppure ormai felicemente presente nelle abitudini, nei riferimenti, nella moda. Negli scambi continui di cui non si potrebbe più fare a meno. Per unire due realtà apparentemente inconciliabili è servita una terra di mezzo popolata di mostri: non tutti cattivi, spesso utili, in parte ingestibili. Una schiera di spiriti da cui dipende l’energia della natura e tutti hanno trovato una faccia e una dimensione perché gliel’ha data Mizuki.
Lo Yokai è la versione in anime del realismo magico e la fantasia certamente aiuta a descrivere entità indefinibili, però non è quello che ha fatto Mizuki, altrimenti non sarebbe stato speciale. Lui ha usato il tangibile, non l’immaginazione, per inventare sguardi e forme e ambienti in cui il vero, nel dettaglio più infinitesimale, è sempre presente in abbondanza e il richiamo di ogni forza impalpabile trova un corpo, un’idea che può solo essere mostruosa. Il Far East Festival è un tramite allenato a trasportare l’Est più estremo e popolare e rumoroso e sgargiante al centro della nostra quotidianità, lo Yokai, con 100 pezzi e 13 film, è uno dei temi di questa edizione, la mostra però è indipendente, come ogni manga e infatti resta a Casa Cavazzini, a Udine, fino al 30 agosto, a raccontare un universo creativo densamente popolato. Poteva partorirlo solo uno che ha attraversato la propria personale «bocca dell’inferno», un portale che davvero appare nei suoi manga, un raffinato esercizio di stile e volontà, la cifra di questo artista.
Mizuki impara a guardare i demoni e a classificarli esattamente nel momento in cui il Giappone esce da ogni mappa e collegamento, dopo la Seconda guerra mondiale iniziata nell’isteria e finita nell’orrore. Il Giappone vive entrambi i momenti alla massima potenza. Ciò che infligge e ciò che subisce si uniscono nel punto di non ritorno che è pura miseria, totale squasso. Mizuki supera la fine con sollievo e stupefacente ironia, con una leggerezza che non avrebbe senso. Si parla di un ragazzo chiamato alle armi quando il Giappone ha già perso su ogni fronte, di un essere umano a cui viene chiesto di lasciare una lettera d’addio per i cari nel momento in cui gli viene consegnata l’uniforme. Arruolato in missioni suicide dopo essere stato trombettista, sopravvive, perde un arto ed è grato. Conforto che mette su carta e nutre e amplifica con una serie di innumerevoli soggetti. Buona parte sono raccolti nell’antologia, Il Mondo delle fessure rotonde appena pubblicato da Canicola.
Mizuki nasce a Osaka e cresce in un Giappone rurale, curato dalla sua nonnonba che gli racconta l’incanto della tradizione, il potere dei morti, il rispetto per qualsiasi forma vivente, il timore reverenziale per le ombre. Lei, che non è una parente ma una tata, diventerà anni dopo un personaggio tipico. Mizuki ha una capacità innata di disegnare fin da bimbo, un talento puro, ma fino a che non viene arruolato per la Guerra nel Pacifico e maciullato, traumatizzato, fino a che non torna da lì è solo uno bravo. Poi diventa unico: «Quando mi hanno rimpatriato e portato in un capannone con altri 50 senza braccia o gambe ero un po’ frastornato. Il mondo era ridicolmente piacevole». Ed è quel mondo lì, lo Yokai, è la consapevolezza di essere «un miserabile», parole sue, senza nulla, senza prospettive, in un Paese alienato e avere comunque la profonda certezza che il peggio sia passato. Che ci sia altro da dire e che tocchi a lui.
Cerca un modo di cavarsela. Fa il pescivendolo, l’affittacamere, passa in luoghi insulsi, raccatta soldi con il kanishibai, teatro di strada in cui un attore narra una storia illustrata di fronte a sfondi che seguono la trama. Il suo mestiere. Tutto il folklore in mezzo a cui è cresciuto esce fuori e nel frattempo nasce Garo, rivista d’avanguardia sbucata alla vigilia delle Olimpiadi del 1964 e attrazione irresistibile. Garo e Mizuki diventano una cosa sola. Su quelle pagine si parla di pacifismo e di mostri. Messaggio che arriva ovunque.
L’opera di Mizuki è sterminata e globale: la sua creatività è mossa dal bisogno di produrre, di stabilire legami tra Est e Ovest, tra idealità e piacere, tra paura e risate. La tecnica ha pure un nome, “effetto maschera”, il trucco per dialogare con l’energia cosmica, Mizuki le dà tutti i volti che riesce a concepire.
Più sfumature trova e più avvicina i diversi universi. Lui è morto 10 anni fa e ancora si cammina sulle sue tavole, ci abbiamo trovato elaborazioni del lutto che impediscono l’annientamento e fatto i conti con il passato.
Abbiamo iniziato a condividere, a contaminarci: non ci riesce sempre però lo sappiamo fare, perché l’energia è la stessa, la mitologia non poi tanto differente e l’eredità comune. —