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 2025  aprile 27 Domenica calendario

Intervista a Marco Negri

Tra un pallone e una pallina. “Non sono stato né Vieri, né Baggio, né Totti, però la mia storia racconta di 15 reti con una neopromossa, quando nelle difese avversarie c’erano dei fenomeni. Poi l’infortunio con una pallina da squash, episodio definito come il più bizzarro del calcio scozzese. E tutto è cambiato, per sempre”.
Marco Negri era fiuto, tenacia, muscoli e tecnica. Bello come pochi, da calendario. È stato uno dei primi a varcare la Manica per successo e soldi, a cercare il riflettore fuori dallo Stivale, a scoprire sulla propria pelle (e i propri stinchi) cos’è il calcio britannico (“l’arbitro non fischiava mai”). Fino al giorno dell’incidente “quando ero all’apice della carriera”.
Sono vent’anni dallo scarpino al chiodo e ha scritto una biografia “che mi ha aiutato a capire certi errori e ad accettare il mio destino”.
Quale destino?
Ho ripensato al me diciassettenne: dalla Primavera dell’Udinese entro in prima squadra e non ero neanche il più brillante. Eppure esordisco in campionato e nel frattempo andavo ancora a scuola.
Quindi?
Ero uno un po’ appeso.
A metà.
A 17 anni devi decidere se vale la pena affrontare una lunga serie di sacrifici senza alcuna certezza e con una serie infinita di variabili in grado di modificare o annullare gli stessi sforzi; (pausa) basta un infortunio, grave, e tutto finisce.
La prima variabile è l’incoscienza dell’età.
Erano gli anni 80, era normale andare in moto senza casco. Una follia. Avevo una Honda 125 che arrivava a 150 km/h, con l’Udinese che la proibiva, ma la scuola era a Trieste e il campo di allenamento a Udine; (sorride) erano i tempi che quando andavi al mare piazzavi l’asciugamano sotto il sedere.
Ha una bella proprietà di linguaggio.
Lo prendo come un grande complimento.
Molti suoi colleghi ne sono sprovvisti.
Lo so.
Eppure da giocatore non parlava con i giornalisti.
Perché non sopportavo la banalità delle domande, sempre le stesse: “Come va con l’allenatore?”; “e i compagni di squadra?”; “la città?”. Vivevo quei momenti come uno spreco d’energia: impossibile risultare se stessi.
Nel libro racconta che la stampa ha aiutato alcuni suoi colleghi…
Ho conosciuto giocatori di grandissimo livello che mantenevano un rapporto privilegiato con la stampa: sentivano il giornalista sia prima che dopo la partita, così quel giornalista poi lo trattava con riguardo.
Lei, mai?
Giocavo nel Perugia e Luciano Gaucci (proprietario della squadra) il giovedì chiamava due o tre giocatori e piazzava dei pilotti di mezz’ora per sapere tutto. Una volta ci provò con me, quindi venni contattato dalla sua segretaria “le passo il presidente”. E io: “Ha chiamato i Vigili del Fuoco, ha sbagliato”. Non ci ha più provato.
Gaucci personaggio epico, incontrollabile.
Un motivatore.
Entrava negli spogliatoi?
Alla fine del primo tempo di Perugia-Napoli, perdevamo, e classifica alla mano eravamo retrocessi. Peccato che mancavano ancora 15 partite alla fine del campionato, quindi c’erano margini per salvarsi. Mentre Nevio Scala (l’allenatore) stava spiegando i cambi, entra lui sbattendo tutto: “Se finisce così è la Serie B! Se perdiamo, subito in ritiro”.
Il ritiro è la Caienna.
A me non dispiaceva, a volte lo ritenevo propedeutico; e non mi dispiacevano neanche i modi di Gaucci, con la sua personalità straripante. Il problema è che alcuni giocatori li fomentava, molti altri li disintegrava psicologicamente.
Lei ha una personalità decisa.
È grazie a mio padre, alle sue regole di vita, al suo pragmatismo e all’ambiente friulano: piedi per terra.
Però non è stato un santo.
No. E lo ritengo un pregio; anzi, oggi, quando ci ripenso, mi dico “cavolo, potevo fare di più”. Fino a 27-28 ani sono stato uno scapolone.
Il pregio?
La scappatella, la sciocchezza mi metteva nella condizione di cercare il modo per farmi perdonare; (sorride) ero a Perugia, allenatore Nevio Scala. Pareggiamo in casa contro l’Inter. La società decide il ritiro fino al giorno dopo. A mezzanotte decido che era già il giorno dopo. Quindi decido di andarmene: avevo un appuntamento. La sfiga vuole che con l’auto supero proprio Scala.
Dolore.
Il martedì mi chiama Scala: “Che macchina hai?” “Che targa?”. Lì capisco: “Non ero io, l’ho prestata a un amico”. E Scala, persona intelligente: “Almeno vai piano”. Ecco, con un allenatore così davo tutto.
Parla bene di tutti gli allenatori, in primis di Zaccheroni.
Mister e uomo super; l’ho avuto nel Cosenza ed è stata una stagione epica: siamo partiti con nove punti di penalizzazione, non venivamo neanche pagati, ma ci siamo salvati.
Zaccheroni non nega i benefici del sesso prima della partita.
(Ride) Capisco. Infatti spesso ho segnato.

Quindici gol al debutto in Serie A.
Senza rigori. E davanti ho trovato dei mostri come Cannavaro, Thuram, Costacurta, Baresi, Montero o Mihajlovic.
Montero era così cattivo?
Veramente tanto, però si adattava alle regole, agli arbitri.
Tradotto?
Se lo poteva permettere perché giocava con una big; (torna a prima) oltre ai difensori aggiungo una generazione di portieri incredibili: Toldo, Pagliuca, Peruzzi, Buffon, Cervone, Marchegiani…
Altro standard.
Il livello del calcio era superiore e ti costringeva a cercare le risorse che non credevi di possedere.
La difesa del Milan
Un’orchestra con un grande direttore come Baresi e primi violini dappertutto. Gli ho segnato.
Adrenalina pura.
Un’emozione impossibile da trasmettere. È l’estasi. Hai la certezza di donare la felicità con un solo tocco.
Prima di entrare in campo ha mai percepito la paura?
Solo una volta: a San Siro. E pensare che sono sempre stato uno freddo, controllato, mentre ho visto compagni vomitare per la tensione.
E a San Siro?
C’era il tutto esaurito: alzavo la testa per vedere il pubblico, ma non finiva mai. Lì ho pensato: “Non fare figure di merda”. Dopo il fischio d’inizio la paura è scomparsa; (pausa) durante la partita quasi tutti i giocatori entrano in una sorta di bolla.
Nella bolla si torna ragazzi sul campetto?
In gran parte è così, dentro di te ritrovi i tempi di quando andavi in cortile e se non eri capace nessuno ti sceglieva.
Altro allenatore: Franco Scoglio.
Il professore stava avanti a tutti di anni e anni: curava pure la preparazione atletica.
Caratterialmente?
Non saliva mai con noi in pullman, ci seguiva con la macchina. Sosteneva che in quelle ore, il giocatore, doveva sentirsi libero di ruttare o di insultare.
Allenatori scaramantici?
C’era Clagluna che vietava all’autista del pullman di ingranare la retromarcia. Piuttosto ci doveva lasciare da un’altra parte.
Massimiliano Allegri.
Ci ho giocato insieme a Perugia: percepivi che era speciale.
Cioè?
Dettava i tempi di gioco, era l’allenatore in campo, il vero figlioccio di Galeone. Però non credevo in una carriera del genere.
Arriviamo in Scozia, alla scelta dei Rangers.
Volevo giocare la Champions e poi c’era il fattore economico.
Impatto con l’ambiente.
Prima amichevole: squadra A contro squadra B, una sorta di allenamento. Esco dal tunnel, entro in campo e trovo 47.000 persone sugli spalti.
Non male.
Ero abituato ai 100 vecchietti che venivano al centro sportivo del Perugia; (pausa) con i Rangers c’era un rito: quando la squadra giocava in casa, gli avversari ci aspettavano in campo, mentre noi entravamo di corsa con i tacchetti degli scarpini che generavano scintille con lo sfregolio sul cemento del tunnel. Una volta dentro il pubblico impazziva e cantava Simply the best di Tina Turner.
Adrenalina.
Era l’immagine de Il Gladiatore: quando ne parlo sento ancora i brividi.
Super adrenalina.
Al fischio d’inizio eri pronto ad azzannare chiunque; (pausa) una volta Rino Gattuso è riuscito a farsi ammonire dopo 21 secondi. E per beccare lì un cartellino giallo devi far sanguinare l’avversario.
E il pubblico?
Esaltato, celebrava l’impresa di Rino.
Su Gattuso ci avrebbe scommesso?
Ho avuto la fortuna di giocare con lui e Materazzi e non ho mai visto nessun giovane così determinato. Quando stavamo insieme al Perugia, nelle partitine d’allenamento era fondamentale capitare con loro in squadra: facevi una bella figura e giocavi la domenica.
In Scozia quante botte ha preso?
Tante. In alcune partite l’arbitro fischiava in tutto dieci volte, compreso calcio d’inizio e di fine; nel derby con il Celtic, se ci fosse stato il Var, il match sarebbe durato sei o sette ore.
Nei Rangers ha trovato Gascoigne.
Con Cruijff è stato il centrocampista più forte dello scorso millennio.
Un peccato.
Si faceva del male.
Ubriaco pure agli allenamenti?
Quando arrivava e iniziavamo la corsa di riscaldamento, lo piazzavamo in mezzo al gruppo per mascherare le sue condizioni. Dopo venti minuti, grazie alla sudate, si riprendeva. Alla fine restava un’altra mezz’ora per punizioni e uno contro uno: fenomenale.
Le imprese di Gazza sono da leggenda.
Eravamo in ritiro. Noi tre italiani ligi (oltre lui anche Porrini e Gattuso), preoccupati per le multe. Poco dopo vediamo arrivare Gazza vestito solo con canottiera e mutande. A piedi nudi. Entra. Saluta tutti. Prende due sandwich, li infila nelle mutande e se ne va. Il giorno dopo ha segnato due gol e ho pensato: “Può fare quello che vuole”.
Si è adattato alla Scozia?
Lì alle due del pomeriggio è buio e a giugno hai il sole a mezzanotte. Pioggia, sempre.
E lei?
Mi ero accasato con la ragazza che è diventata mia moglie.
In Italia altra routine.
Mi sono impegnato a non uscire, poi mi chiamava un compagno di squadra: “Sei già a letto?”. “No, no usciamo!”.
Sempre dal libro: “Mi arrivavano le lettere con le mutandine dentro”.
A Perugia c’era un massaggiatore molto religioso con la sorella suora. Gli andavo intorno con le mutandine infilate nel dito: le ruotavo a mo’ di mulinello, e lui scappava urlando “sei il diavolo, sei il diavolo!”.

Torniamo alla Scozia: ci è stato bene…
Fino a quando ho giocato a calcio, tutto è cambiato dopo quel pomeriggio.
Il pomeriggio maledetto.
Vado al campo di squash con Porrini e Gattuso. Durante la partita una pallina mi centra l’occhio. Che esplode. È stato lo spartiacque. Perché da lì ho inanellato una serie incredibile di problemi e infortuni: una polmonite, due ernie, l’infezione a un osso. Alla fine avevo dei valori del sangue talmente sballati da non escludere malattie molto più gravi.
Un disastro.
I Rangers smisero di pagarmi lo stipendio.
Da depressione.
La conosco bene, mia madre ne soffre da quarant’anni. Però, no. Comunque sono stato male.
Alla fine.
Sono tornato in Italia per affrontare la questione: medici su medici, fino a quando mi consigliano una lunga vacanza. Obbedisco. E al ritorno i valori del sangue erano rientrati: il mio corpo non sopportava più certe pressioni, pensavo sempre in negativo.
Non sarà stata depressione, ma ci è andato vicino.
Per due anni non ho provato gioia con il pallone.
Dove ha ritrovato la gioia?
Sembra un film: torno a casa dei miei genitori, poi una mattina esco per un giro, passo dal campetto di quando ero piccolo e trovo dei bambini giocare. Mi siedo sui gradoni di pietra. E li vedo ridere, piangere, incitarsi, ancora ridere.
L’essenza.
È stata una spugna sulla lavagna. Da lì ho iniziato ad allenarmi da solo ed è partita un’altra carriera.
Ha smesso vent’anni fa.
L’aspetto pazzesco è che ancora mi ricordano.
È bello.
I soldi possono finire, i trofei prendono la polvere. Resta solo una fiammella dentro di te e quella fiammella si riaccende se incontri qualcuno che ti offre un caffè o se torni dove hai giocato e ti dedicano un coro. In quel momento sei ancora un calciatore.
I calciatori che l’hanno maggiormente colpita.
Abel Balbo: lo guardavo e cercavo di imparare; poi Francesco Dell’Anno, la persona più vera mai conosciuta, sempre se stesso, mi ha insegnato come vivere il mondo del calcio. Infine Gazza.
Lei chi è?
Un uomo che ha fatto ciò che amava e ha amato, il più delle volte, ciò che ha fatto. A 54 anni mi sento un uomo libero e felice.