Il Messaggero, 27 aprile 2025
Renzo Arbore: «Minoli all’inizio mi disse di no a "Quelli della notte", a quell’ora c’era solo il monoscopio»
Ore 22.45 del 29 aprile 1985. Su Rai2 va in onda la prima puntata di Quelli della notte, il programma di Renzo Arbore (firmato anche da Ugo Porcelli, classe 1944, suo amico e complice prezioso in tante avventure professionali) che in poco più di un mese rivoluzionò la tv italiana con una nuova idea di intrattenimento, musica e sorrisi. Una formula mai vista prima che pescava e rielaborava battute e personaggi anche dalla realtà di tutti i giorni (il comunista ortodosso interpretato da Maurizio Ferrini, il ciclone Giorgio Bracardi, l’incontenibile chiacchierona Marisa Laurito etc.). Grazie a una creatività scoppiettante e un’energia travolgente, quel salotto non solo segnò tutti gli Anni Ottanta, chiudendo con frizzante leggerezza i cupissimi Anni di piombo, ma inventò un linguaggio – quello dell’improvvisazione in tv – impose modi di dire – poi imitati da chiunque – e di fatto inaugurò la fascia oraria della tarda serata (il programma durava un’ora e un quarto, fino a mezzanotte). Insomma, dopo Quelli della notte, in tv nulla fu più come prima. Quella strampalata jam session comico-musicale, ambientata in un salotto un po’ kitsch e un po’ arabeggiante, funzionò talmente tanto che quarant’anni dopo di quelle fantastiche trentaquattro puntate abbiamo ancora voglia di parlarne. Con quel funambolico burattinaio di Renzo Arbore, per esempio.
Come le venne l’idea del programma?
«C’entrano una bizzarra crociera fatta con un gruppo di amici in giro per il Mediterraneo, durante la quale facemmo scherzi di ogni tipo che in parte finirono nel progetto, e un periodo passato a Foggia quando mia mamma si ammalò gravemente dopo il grande successo di Cari amici vicini e lontani, programma che nel 1984 feci su Rai1 per celebrare i sessant’anni della radio. In quel periodo, nella mia città natale, dopo la sua morte, per cercare di superare il dolore, provai a distrarmi con gli amici ricreando in maniera scherzosa i personaggi delle riunioni di condominio: quello serissimo, quello litigioso, quello che parlava con le frasi fatte etc. Non dico che il modello di Quelli della notte fu questo, ma il primo spunto per metterlo a punto, sì. Comunque rientrato a Roma incontrai per caso Giovanni Minoli».
E che cosa le disse?
«Mi chiese se avevo un’idea per un nuovo programma. E io risposi che volevo farne uno notturno, più o meno dalle 23 in poi. In pratica, il primo vero “late show” italiano».
E lui come reagì?
«"Impossibile. A quell’ora non si fa tv, la gente dorme: c’è il monoscopio”. Poi ci ripensò e mi disse di andare avanti con quell’idea. E così cominciai a organizzarmi. Minoli per mettermi sulla buona strada mi diede una dritta che ha un nome e un cognome: Giusy Robilotta, produttrice di Rai2. Donna speciale».
Perché?
«Rideva come una pazza. Per una settimana, massimo dieci giorni, convocai tutto il gruppo di lavoro a casa mia e cominciammo a cazzeggiare. Lei c’era e lei se la spassava con gusto. E così facendo ci incoraggiava. Il modello erano le feste che facevo a casa mia. C’era sempre l’orchestra e quando la musica si fermava, sul divano dicevamo stupidaggini. Sono partito da quello. E Giusy fu preziosissima perché ci dava un riscontro immediato di quello che io e Ugo Porcelli avevamo in testa».
Mettere insieme il cast fu facile?
«Sì. Tutti i personaggi messi a punto funzionarono in maniera straordinaria con le persone a cui avevo pensato. L’intellettuale Riccardo Pazzaglia, che voleva alzare il livello della trasmissione ma finiva sempre mortificato dalle banalità di Max Catalano, era perfetto. Proprio come il comunista Maurizio Ferrini che voleva costruire il Muro di Ancona contro i meridionali, l’arabo Harmand interpretato da Andy Luotto, lo stralunato frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica... Un po’ più complicato fu trovare il personaggio per Marisa Laurito».
Perché?
«Lei era un’attrice, aveva recitato con Eduardo De Filippo, Nino Manfredi, Terence Hill e Bud Spencer... Come gli altri si aspettava una parte, ma io volevo assegnare un personaggio ben preciso su cui improvvisare. Insomma, fare come nel jazz. Io davo una tonalità, in questo caso un tema, uno spunto qualsiasi, e poi ognuno doveva sbizzarrirsi creando sul momento».
E quindi come andò a finire?
«Lei prima voleva fare una suora, poi una massaggiatrice, però non ci sembravano le soluzioni giuste. Alla vigilia del debutto ancora non avevamo trovato l’idea adatta quando, all’improvviso, mi venne in mente una cosa: “Marisa, non hai una cugina, una zia, un’amica che racconta a tutti ogni faccenda privata della sua famiglia? Una di quelle così logorroiche che ti stordiscono con le parole...”. Si illuminò, avevamo in mente lo stesso prototipo di donna, e da quel momento in poi fu tutto in discesa: Marisa entrò perfettamente in sintonia con quel modello. Grazie anche al suo talento nacque una vera e propria sitcom perché tutti, ogni giorno, volevano saperne di più».
E poi c’era Roberto D’Agostino.
«Dago fu fondamentale, riuscì a trasformarsi in uno straordinario ed efficacissimo filosofo. Capì che, finito il terribile periodo delle violenze politiche, poteva fare il manifesto degli Anni Ottanta. E così inventò l’edonismo reaganiano e le classifiche del lookologo. Da artista dell’effimero, citando il libro a modo suo, fece volare le vendite dell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, che ovviamente non aveva e non ha mai letto. Bravissimo».
Voi due in privato, alle feste, vi divertivate a parlare di gossip, vero?
«Certo. A casa con gli amici facevamo a gara a chi ne sapeva di più su quello che pubblicavano giornali tipo Novella 2000: il nuovo amore di Milva, il nome dei figli di Orietta Berti, che lei ha chiamato tutti con la lettera iniziale “O”... Morivamo dalle risate perché alla fine si capiva che quelle notizie quasi tutti le avevano già lette, proprio come noi. Come Dago funzionarono anche il verbosissimo critico musicale Dario Salvatori, Simona Marchini e i pettegolezzi sui flirt delle star, e tutti gli straordinari musicisti della New Pathetic Elastic Orchestra: il maestro Mazza, Gegè Telesforo, Antonio e Marcello, Sal Genovese, Stefano Palatresi, Mauro Chiari, la meravigliosa Silvia Annichiarico. Ricordo le sigle di apertura e chiusura che dopo un po’ tutti canticchiavano: Ma la notte no e Il Materasso».
Che ascolti fece registrare?
«Ottocentomila spettatori la prima settimana, un milione e 700 mila la seconda, fino ad arrivare a 2 milioni e, nelle ultime due settimane, 3 milioni a puntata, con uno share fino al 51 per cento. Un successo epidemico che mi responsabilizzò: quando intuì un po’ di stanchezza, decisi di chiudere».
La gestione di quel successo fu complicata?
«Dopo Quelli della notte mi sentii come se fossi caduto da cavallo. Dovevo rimontare subito in sella. E così nel 1987 feci Indietro tutta, programma completamente diverso a base di improvvisazioni e satira sulla tv. Un trionfo. Alla fine dell’ultima puntata, mentre cantavo Io faccio o show, mi fu chiarissimo che non avrei fatto il tris. C’è un momento in cui, senza microfono, dico: “Basta, ci rivediamo tra vent’anni, volevo cambiare. Nacque così l’Orchestra Italiana, trent’anni e 1600 concerti in tutto il mondo che mi hanno dato tantissimo».
"Quelli della notte” andava in onda dal lunedì al venerdì, e iniziò il 29 aprile per chiudere il 14 giugno. In totale sono 35 puntate, ne avete fatte 34: perché?
«Il 29 maggio a Bruxelles ci fu la strage dell’Heysel, lo stadio dove Juventus e Liverpool dovevano giocare la finale di Coppa dei Campioni: morirono schiacciate trentanove persone, trentadue italiani, con seicento feriti. Dopo aver visto in tv quel massacro decidemmo di lasciar perdere. In video dissi: “Non ce la sentiamo stanotte di stare con voi con un programma di assoluta evasione. Ci vediamo domani”. Fu una decisione difficile da prendere, ma fummo tutti d’accordo».