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 2025  aprile 26 Sabato calendario

Scott Turow: "Per gli Usa non è un buon periodo ma non potrà durare per sempre"

Scott Turow a 77 anni torna ancora una volta sulla scena del delitto: in Presunto innocente del 1986, il best seller che lo rivelò al mondo, il suo alter ego Rusty Sabich era un pubblico ministero sospettato della morte dell’ex amante, la bellissima Carolyn Polhemus, in realtà uccisa dalla moglie. In Innocente (2010) a morire era proprio la moglie, inutile dire che il principale sospettato era ancora Rusty, diventato nel frattempo giudice di corte d’appello. Stavolta, in Presunto colpevole, a creargli problemi è il figlio adottivo della nuova compagna Bea, Aaron, un ragazzo nero poco più che ventenne con precedenti per droga, arrestato per il presunto omicidio della fidanzata Mae, erede della più potente famiglia della zona. Rusty, ormai in pensione, assume la sua difesa in un processo che sembra già deciso.
Turow, come mai torna sempre a Rusty Sabich?
«Dopo Innocente il povero Rusty era messo molto male e non smettevo di pensare che si meritasse un altro finale. Ma non sapevo ancora quale. Quello che avevo chiaro era il luogo: la mia famiglia possiede da anni una casa a nord di Chicago, lungo il confine col Wisconsin: è una di quelle zone negli Stati Uniti che non è né città né campagna, ci abitano persone che si sentono, a ragione, ignorate dal resto del Paese. Le opportunità sia economiche che culturali sono scarse, i ragazzi non hanno uno scopo e spesso si perdono. Sono zone non molto rappresentate nell’immaginario, quindi stimolanti. L’altra cosa che mi interessa da sempre è indagare cosa succede in una famiglia quando uno dei componenti, spesso un ragazzo, è accusato di un terribile crimine. Naturalmente è un tema che in molti hanno affrontato, ma io volevo farlo a modo mio».
Quanto c’ è in lei di Rusty ?
«Uno dei miei amici più cari mi ha detto che per lui è stato inquietante leggere Presunto colpevole perché Rusty, quando parla, suona proprio come me. Lo stesso vocabolario, lo stesso giro di frasi... Ma non sono io. Ho avuto una vita sentimentale e lavorativa molto più tranquilla e spero di essere più onesto con me stesso di lui. D’altro canto la sua infanzia è stata ancora peggiore delle mia: io ho avuto un padre con cui non andavo d’accordo ma Rusty non ha mai avuto un padre. In sintesi ha avuto una vita più drammatica della mia».
Rusty in questi 38 anni è cambiato, si è ammorbidito. E l’America com’ è cambiata ?
«Se mi avesse fatto questa domanda nel 2016, alla fine del secondo mandato Obama, le avrei risposto che il Paese è cambiato per il meglio, è diventato un posto migliore per le donne e le minoranze razziali. C’è ovviamente stata una reazione a tutto ciò e oggi viviamo una situazione molto triste. La legge riflette l’atmosfera generale, anche se nella maggior parte dei casi i giudici hanno tenuto la barra dritta, ma si sono moltiplicati i tribunali conservatori, il che è dovuto a una manipolazione efficace delle paure del Paese profondo. Eppure un vantaggio dell’età, sia per Rusty che per me, è sapere che i periodi difficili passano: l’ho anche scritto al mio amico canadese, allarmato per l’attacco improvviso e ingiustificabile del presidente Trump a un Paese che è stato per un secolo l’amico più fidato degli Stati Uniti. Gli ho scritto, “non è un buon periodo, ma ricordati che non può durare per sempre"».
Invecchiare insegna a relativizzare?
«Certo, nel lungo periodo la situazione migliorerà, anzi credo sia vicino il momento dell’inversione di rotta. Quel che mi preoccupa adesso è quanto ci vorrà per rimediare ai danni che stiamo facendo».
È un periodo cupo anche per la guerra, mai così vicina da 80 anni all’Occidente. Il personaggio di Joe è profondamente danneggiato dall’esperienza in Corea, ne porta le ferite dentro per sempre. La guerra non finisce mai?
«Purtroppo la violenza è un elemento chiave della storia americana, fin dalla guerra civile che ha messo fratello conto fratello. Questa violenza è impressa a fuoco nel carattere del Paese. Lo è stata anche per me, mio padre era un veterano della II Guerra Mondiale e come molti suoi coetanei ne è stato segnato profondamente. Questo, unito al fatto che è stato orfano da bambino, lo ha reso un padre molto difficile».
Un’altra eredità pesante del passato è la questione del razzismo. Ne verremo mai fuori?
«Qui di nuovo mi tocca fare la parte del vecchio e relativizzare, sottolineando come, a mio giudizio, le cose siano migliorate nel corso della mia vita: quando ero ragazzo gli afroamericani non avevano lavori di responsabilità, oggi la comunità in generale è diventata più colta e più ricca. Non nego che ci sia ancora molto da fare per avere una società equa, ma la situazione è migliorata. È cambiato soprattutto enormemente l’atteggiamento: la mia generazione non può fare a meno di notare il colore della pelle, i miei figli più giovani non ci fanno caso: il compagno di stanza di mio figlio al college era afroamericano e a lui non è venuto neanche in mente di menzionarlo a casa, perché per lui era più importante dirci che veniva dal Texas o amava il suo stesso tipo di musica o era figlio di un professore. La battaglia per i diritti è diversa per ogni generazione. Certo il libro è ambientato in una zona molto bianca e molto tradizionalista e, sapendo che Aaron dovrà sedere sul banco degli imputati, Rusty pensa: “Meglio che non abbia un avvocato afroamericano, altrimenti sarà subito percepito come un processo di bianchi contro neri"».
Lei è stato per tutta la vita sia scrittore che avvocato, in che percentuale?
«La percentuale è cambiata nel corso del tempo: quando per la prima volta ho detto ai soci dello studio legale dove lavoravo che avrei preso un part time per scrivere ero 80% avvocato e 20% scrittore. Quando sono andato in pensione nell’estate del ’21 ero il 10% avvocato e il 90% scrittore: adesso anche, perché continuo a seguire qualche caso pro bono. Non ho mai smesso di esercitare, la pratica legale è fondamentale per la mia scrittura».
Come mai?
«Inizialmente volevo fare lo scrittore, ho studiato scrittura creativa all’università. Eppure il gran salto di carriera l’ho fatto quando ho iniziato a studiare legge. Innanzitutto mi ha aiutato a dare un senso, una forma alle grandi domande che ribollivano dentro di me, il bene il male, la colpa, la punizione, qual è il confine tra il giusto e lo sbagliato, come si trova la verità. Ma dalla legge ho anche imparato a scrivere in modo efficace, con più sintesi ( un’arringa non può durare all’infinito): ho imparato a non vergognarmi di tenere alta l’attenzione della giuria – e del lettore – con un cliffhanger, per esempio (un colpo di scena). Un avvocato e uno scrittore, in fondo, raccontano entrambi una storia. La raccontano attraverso le voci di molte persone, i testimoni dell’avvocato, i personaggi dello scrittore. C’è un vecchio detto in tribunale che per la giuria è sempre la notte della prima: il processo in realtà è un grande spettacolo».
La sua motivazione profonda qual è? Dare giustizia quando ahimé la legge non riesce?
«Beh, devo dire che nei miei libri la giustizia non è certo in bianco e nero. La legge è la cosa migliore che abbiamo ma non è perfetta. I suoi meccanismi correttivi a volte funzionano, altre meno, e nei miei libri spesso il colpevole se la cava. Certo lo scrittore è il dio del suo universo e può controllare quello che nella vita non si può».
Cosa ne pensa dell’intelligenza artificiale?
«Come l’energia atomica nel XX secolo: un enorme potere che può fare enormi danni ma ha anche enormi vantaggi. La scorsa settimana è stato il mio compleanno e mi hanno fatto una bellissima canzone con l’AI, è stato persino commovente. D’altra parte le piattaforme di AI usano un database di libri per educarsi, rubando la proprietà intellettuale degli autori e guadagnandoci moltissimo. Questa è un’ingiustizia terribile, per me è vergognoso. Ho deciso di fare causa».
Il guaio dell’intelligenza artificiale è che è intelligente...
«È intelligente sì ma è anche infida. L’eroina del mio libro precedente, Sospetto, è una giovane detective chiamata Pinky. Un lettore ha chiesto all’AI chi fosse la madre di Pinky e lei ha risposto Carolyn Polhemus. Non è vero. Quando l’AI non sa, mente. I suoi creatori scusano i suoi errori chiamandoli allucinazioni...».