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 2025  aprile 26 Sabato calendario

Editori, un bravo poeta merita il vostro coraggio

C’è un campo in cui la pratica del self-publishing è invalsa molto prima che il tema diventasse modaiolo, come può accadere solo quando a essere coinvolto è il romanzo, genere incomparabilmente più remunerativo della cenerentola dell’editoria: la poesia. Gli editori di poesia che non siano i pesi massimi (Einaudi, Mondadori, Garzanti) non possono consentirsi di versare un anticipo agli autori e più spesso, specie se nemmeno medi ma effettivamente piccoli e con fatturati non competitivi, sogliono chiedere un contributo per la pubblicazione, nella modalità del cosiddetto “acquisto-copie”. Uno degli allievi dei miei corsi ha scritto un testo il cui esordio era: «Ma io, perché devo darti 1800 euro?», il cui destinatario non era l’amata, come nella lirica amorosa cioè nella quasi totalità della lirica, ma per l’appunto un ipotetico non implausibile editore “a pagamento”. Le cifre sono queste, se non maggiori, e ci sono molti autori dilettanti, pronti a versarle. Si sono susseguite nel tempo polemiche roventi su questioni affini al self-publishing come l’impegno a vario titolo chiesto agli autori, chiamati a diventare non solo autofinanziatori ma anche promoter di loro stessi: una dozzina di anni fa, a mezzo social, l’allora enfant terrible dell’editoria Giulio Milani e la scrittrice e a quell’altezza vivacissima lit-blogger Loredana Lipperini ne furono protagonisti per diversi giorni. Gli editori piccoli non possono che sopravvivere tramite bonifico e complicità autoriali, rivendicava Milani; non è pensabile, ribatteva Lipperini, che un autore debba autopromuoversi e men che mai autofinanziarsi. Ne va della serietà e della rispettabilità del lavoro autoriale e soprattutto di quello editoriale. Salvatore Sanfilippo, informatico e autore di un antesignano romanzo sulle reti neurali intitolato Whope uscito tre anni orsono per Laurana, definisce questa strategia a partire dal suo sapere primario: «all’inizio bisogna fare cose che non scalano. Vuol dire che per dotare un’opera della spinta necessaria al suo decollo – sempre che ne abbia le qualità – per un certo periodo è necessario conquistare i lettori uno a uno. Vale solo nelle fasi iniziali, passate le quali o si genera un effetto a catena o è finita lì». È lo stesso Sanfilippo a essersi servito del self-publishing su KDP Amazon per alcuni racconti dedicati a biografie di informatici finzionali. Sul suo profilo Facebook ha pubblicato i grafici dell’andamento dei testi sulla piattaforma: «Una delle due storie è ormai vecchia di nove mesi, l’altra è più recente ma ha avuto meno lettori: l’ho pubblicizzata di meno o forse una suora non ha lo stesso appeal di un informatico barbuto, fatto sta che tutti e due fanno ormai parte del programma KDP Select. Alla fine hanno venduto sulle 800 copie. Non è affatto male per due scritti brevi lanciati nel vuoto cosmico della letteratura nostrana autoprodotta». Pur risultando più che evidenti le ragioni di sopravvivenza di un’editoria boccheggiante (vieppiù quella di poesia, deprivata di occasioni di visibilità a partire dalle librerie, che hanno tranciato o nascosto gli scaffali dedicati), non si riesce a pensare a una questione come l’autopubblicazione (o l’editoria a pagamento, sua parente più prossima) senza ricordarsi che gli istituti di mediazione hanno un ruolo fondamentale nelle dinamiche culturali: la sanzione di un valore e di un interesse collettivo non può essere l’esito di un esborso perché altrimenti vince chi può permetterselo, a prescindere dalle sue qualità e talenti.
Se si vuole continuare a immaginare la letteratura come un campo di creatività e non solo di transazioni commerciali, occorre che questa creatività qualcuno la riconosca, ci investa, ci faccia un ragionamento di prospettiva (il famoso investimento sull’autore), e sì, ci rimetta anche dei danari. Perché il ruolo dell’editoria è certamente quello di un’impresa, ma soprattutto di una fucina, di un luogo privilegiato cui accedere previo consesso di discussione sul merito. Lo pubblichiamo o no, questo Elio Pagliarani, si chiedevano negli anni Sessanta gli editori (tra cui Mondadori) che gli firmavano contratti sulla base di un progetto (La ballata di Rudi, nel caso di specie), e Pagliarani, che era un poeta riconosciuto ma dal valore di mercato non confrontabile a quello di un Franco Arminio oggi (ovviamente in senso inversamente proporzionale al valore letterario), questi contratti a volte li finanche disattendeva, senza particolari conseguenze. È il famoso rischio d’impresa, ma l’autore non è solo un prodotto, né lo è la sua opera: chi lo diceva che Pagliarani meritasse la pubblicazione? No, non lui medesimo, versando l’obolo e comprandosi le copie. Lui, beato, giocava a poker e viveva nelle stanze del teatro Eliseo solitamente destinate agli attori, non potendo inizialmente permettersi una casa propria. Figurarsi l’autopubblicazione. Non so se sia vera questa frase, ma pare amasse rivendicare di «vivere sempre al di sopra delle proprie possibilità». Sarebbe bello valesse per tutti, editori compresi: rischiare e se il valore c’è, alla fine, di riffa o di raffa, pagherà.