Tuttolibri, 26 aprile 2025
Alessandro Dalai: "L’editoria è il mio assassino solo Amazon mi ha dato voce"
L’editore di Io uccido, opera prima di Giorgio Faletti (uscì nel 2002, vendette 5 milioni di copie), ex responsabile di collane in Mondadori, amministratore delegato di Einaudi e dell’Unità, proprietario ed editore della Baldini Castoldi Dalai, casa editrice di inaspettati bestseller (Va’ dove ti porta il cuore, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano), il libro in cui racconta tutto questo e come poi lo ha perso, lo ha pubblicato con Amazon. S’intitola Io ti uccido. Ed è una storia giudiziaria ed editoriale scandalosa, surreale, italiana. Alessandro Dalai è un editore puro, scaltro e spericolato, un novecentesco che ha lavorato con i grandi del ’900, dotato di un fiuto eccezionale per la scrittura che fattura, nato tra i libri, nipote di Oreste Del Buono, fedelissimo di Rita Levi Montalcini, protégé di nessuno, oggi può pubblicare solo grazie al nemico degli editori puri. «Amazon garantisce un sistema democratico. Certo, il libro ha dei difetti e il sistema editoriale che ti viene messo a disposizione è complesso da usare, ma non ha costi, sei pagato sul venduto a 2 mesi e le royalties sono il 30 per cento», dice.
La sua storia, l’epilogo tragico di una vita irripetibile, è venuta fuori la prima volta l’anno scorso, in un’intervista a La Stampa, in cui raccontava come Mondadori lo avesse fatto fallire, sottraendogli Faletti dopo che al medesimo scrittore la sua Baldini Castoldi aveva corrisposto un anticipo di 320mila euro a valere su 800. Tutto comincia a gennaio 2013, quando l’allora direttore generale di Mondadori, Riccardo Cavallero, va da Dalai e gli comunica che Faletti sarebbe diventato suo autore, saluti, perché Faletti, senza dirlo a Dalai, aveva firmato un altro contratto con Mondadori di 300 mila euro a valere su 800. Dalai si ritrova con un buco di milioni di euro di fatturato, fa una procedura per entrare in concordato preventivo per permettere all’azienda di sopravvivere e viene per questo accusato di bancarotta fraudolenta. Fallisce. Perde tutto.
Dalai, quando è iniziata la sua rinascita?
«Dal processo. Che dura 10 anni e si conclude nel dicembre 2023 con la mia assoluzione con formula piena. Il fatto non sussiste, scrive la Prima sezione del Tribunale Penale di Milano. Nelle motivazioni della sentenza, allegate al libro, i giudici scrivono con chiarezza che Mondadori non solo mi ha fatto fallire, ha anche sottratto alla mia casa editrice il magazzino, dove c’erano libri per 70 milioni, per poi rivenderli».
Dopo la sua assoluzione, qualcuno si è scusato, o l’ha contattata per parlarne?
«No. E io ho avvisato giornalisti, editori, scrittori, politici».
Nel libro scrive che, tre giorni prima di morire, Faletti la chiamò ma lei non rispose.
«Ero furioso, ferito, non ci riuscii. Non sapevo che fosse ammalato. Quando ho saputo della sua morte, ho pensato che forse mi aveva chiamato per scusarsi. Credo si sia reso conto tardi del danno che mi ha provocato. Di editoria capiva zero, era raggirabile».
Davvero per “Io uccido” non gli diede un anticipo?
«Faletti con noi aveva fatto un libro esilarante, Porco il mondo che ciò sotto i piedi, che era la storia del suo personaggio più celebre, Vito Catozzo di Drive In, e che iniziava in modo formidabile: “Erano le sei di mattina e stavo seduto sul cesso”. Quando cominciammo a parlare di Io uccido, ero appena rientrato da Einaudi, il momento non era facile, decidemmo di tirare 20 mila copie: era un giallo di Giorgio Faletti, nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato un best seller. Pochi giorni prima di andare in libreria, Giorgio mi chiamò e mi disse: ti mando il mio agente. Gli chiesi: da quando ne hai uno? E così mi si presentò l’acuminato Nicolazzini, lui così lo chiamava. Disse che voleva un anticipo. Gli spiegai che gli anticipi si contrattano prima di andare in stampa e quindi o accettavano di lasciare tutto com’era, o avrei fatto saltare tutto».
Torniamo al suo libro. Ha provato a proporlo a editori tradizionali?
«Non lo ha voluto nessuno. Quando mi sono persuaso a percorrere la strada dell’autopubblicazione, ho provato ad avere almeno una distribuzione. Sono andato da Carlo Feltrinelli, visto che loro hanno il 30 per cento del gruppo Messaggerie, che detiene il 70 per cento della distribuzione italiana. Niente da fare. Idem i colleghi e compagni del Libraccio che mi hanno detto di non voler dar fastidio a Mondadori. Bizzarro, visto che un distributore non ha responsabilità sui contenuti dei libri. Puoi autoprodurti, ma senza distributore non arrivi in libreria. Quindi il mio libro si compra soltanto su Amazon».
Quanto ha venduto?
«Alcune centinaia di copie».
Chi ne ha scritto?
«Dagospia, e basta».
Le dispiace?
«L’ho scritto affinché la mia storia restasse. E ora, sebbene Mondadori abbia cercato di silenziarla in tutti i modi, la storia di come una fruttuosa casa editrice è stata cancellata, è raccontato e documentato sulla sola cosa che resta: i libri».
Non teme ritorsioni?
«Mi hanno già fatto tutto il peggio che potevano farmi. Nel libro ho cercato di far capire come l’editoria italiana sia finita nelle mani di Berlusconi».
Scrive che la sua casa Baldini Castoldi era temuta. Perché?
«Costruimmo uno spazio per giornalisti d’inchiesta, comici, scrittori sottovalutati. Nel giro di cinque anni, un progetto che doveva valere 3 miliardi delle vecchie lire nella migliore delle ipotesi, ne fatturò 30. Pubblicammo Gian Antonio Stella. Bianconi. Naomi Klein, che nessuno voleva. Brizzi».
Di cui lesse su Tuttolibri.
«Le classifiche di Tuttolibri erano la Bibbia. Notai questo ragazzo pubblicato dall’ottima minuscola Transeuropa. Poco dopo, mio figlio Michele mi portò Jack Frusciante è uscito dal gruppo e mi disse: pubblica questo. Eseguii. Vendemmo un milione e mezzo di copie».
Racconta di gite d’affari con capi di multinazionali su aerei privati di Berlusconi in cui Dell’Utri la coinvolgeva per fare da cicerone. Com’è possibile che neanche l’amicizia di Dell’Utri l’abbia aiutata?
«Lui mi ha detto più di una volta di aver chiesto a Marina Berlusconi di salvarci. Non sono sicuro che sia vero. Di certo Marina era a conoscenza di quello che stava accadendo».
I 320mila euro di anticipo sono stati restituiti?
«Sì, dalla vedova Faletti, che ha rivelato subito che il contratto con Baldini, di cui Mondadori e Cavallero negavano l’esistenza, era preesistente a quello che poi Faletti aveva firmato con loro. A quel punto, Cavallero ha ammesso tutto».
Lei non ha visto un euro ?
«No. Da quando la mia azienda è fallita, ho perso ogni diritto».
Nessuno ha pagato niente?
«Io oltre 100mila euro di spese legali. Ho fatto bene: il mio avvocato ha smascherato i curatori fallimentari, quelli che hanno disposto il blocco del mio magazzino sostenendo che era fittizio, quindi vuoto: menzogne, c’erano 4mila titoli pubblicati, per un valore di 70 milioni. I giudici si sono accorti che non era stato disposto, da quei curatori, il controllo qualitativo degli stock e dei maceri».
Ma quei curatori che interesse avevano, visto che erano stati nominati dal tribunale?
«Mondadori si impose, gli disse come procedere, me lo hanno riferito loro stessi».
Intanto, i libri di quello stock sono stati venduti a 0,007 e riveduti tra 7 e 10 euro.
«Per anni, da tutti».
Non verrà rimborsato neanche per questo danno?
«Ho fatto denuncia contro ignoti per estorsione contrattuale. Deve però diventare una denuncia contro Mondadori per avviare un nuovo processo».
Come si sarebbe potuto evitare tutto questo?
«Onorando la legge del mercato che vige in tutti gli altri Paesi: chi ha la libreria non ha anche la casa editrice. Poi, con regole antitrust. Attualmente, Mondadori e Messaggerie controllano il 70 per cento del prodotto libro, e il 70 per cento più 30 (cioè il 100 per cento) della distribuzione. Quando ero consigliere di Bonisoli, ministro della Cultura nel governo gialloverde, gli dissi che era una priorità agire in questo senso. Preparai un piano. Il governo cadde e l’unico ad andare a casa fu Bonisoli. Chiesi un incontro a Franceschini: nessuna risposta. E io ho lavorato all’Unità con Veltroni, sono stato tra i primi sostenitori del Pd».
La odiavano?
«S’è detto per anni che Baldini Castoldi era chiacchierata».
Rita Levi Montalcini invece l’amava.
«Ci volevamo molto bene. Rita lasciò Mondadori con una lettera pubblica durissima quando Giordano Bruno Guerri, nominato direttore editoriale, decise di pubblicare il libro di Doris Duranti, attrice che nel 1942 era diventata amante di Alessandro Pavolini, gerarca fascista e ministro della Cultura Popolare. Così, dopo un breve passaggio in Garzanti, Rita venne in Baldini. Diventammo amici, ci chiamavamo quasi ogni giorno. Volle che fossimo noi a dare la notizia della sua morte».
Lei vota allo Strega?
«Sempre. Qualche giorno fa mi ha scritto il capo di Rizzoli, chiedendomi una preferenza. Avrei voluto rispondergli: leggi il mio libro, così ti è chiaro come il gruppo per cui lavori mi ha distrutto».
Quanti libri ha sbagliato?
«Tanti, è inevitabile, ma anche giusto, a patto che sbagli non perché pubblichi qualsiasi cosa, ma perché hai un motivo per insistere su un libro».
Quanti altri guai ha avuto?
«Sono finito in tribunale per querele e denunce di diffamazioni: a un editore capita. Non sempre ho vinto, ma sempre ho difeso i miei autori».
Qualcuno ha difeso lei?
«Nessuno».