Tuttolibri, 26 aprile 2025
Da Palazzeschi a Proust Quando a pubblicare i libri erano l’amico e il gatto
L’editore di Aldo Palazzeschi, per quanto riguarda le prime raccolte di poesia, si chiamava Cesare Blanc. Era un gatto, per la precisione il suo. Ciò non impedì allo scrittore di arrivare al successo, col romanzo delle Sorelle Materassi, e di entrare coi suoi versi, bizzarri, allegri, innovativi, nel canone novecentesco. Un esordio da «autopubblicato» era del resto frequente fra otto e novecento. Lo si tentava, in una società letteraria più coesa e relativamente piccola, per farsi leggere dagli amici e dalla critica. Ungaretti pubblicò nel 1916 la prima edizione del Porto sepolto in ottanta copie presso un tipografo di Udine, a cura (e a carico) dell’amico tenente Ettore Serra, che l’aveva un po’ costretto. Passarono per le forche caudine della stamperia sotto casa grandissimi nomi in Italia e nel mondo: Walter Whitman pubblicò a proprie spese la prima edizione di Foglie d’erba (nel 1855) e rivendicò la decisione come forma di protesta, come una strategia per aggirare il conformismo censorio degli editori; anticipava nelle intenzioni dell’autore la logica del samizdat sovietico, del libro clandestino usato come sfida, ed era infatti piuttosto provocatorio per i tempi – anche se presto divenne un classico. E. A. Poe fece altrettanto, senza però ambizioni civili o politiche, col suo non indimenticabile Tamerlano e altre poesie (1827), stampato in 50 copie e firmato «A Bostonian».
Non mancavano tuttavia i tormenti, le brutte avventure. Il caso più famoso, per tornare in Italia, è quello di Dino Campana, e dell’odissea dei suoi Canti Orfici: il manoscritto dal titolo Il più lungo giorno – in unica copia – venne consegnato a Giovanni Papini nel novembre del 1913, al Caffé Chinese di Firenze dove il giovane e selvaggio poeta di Marradi frequentava, tollerato, scrittori e artisti. «Noi, a quel tempo, si preferiva di gran lunga i pazzi ai sani, sicché si fece buon viso a lui e alle sue tormentate prose» commentò Papini al proposito. E forse per questo lo prese se non come un fenomeno da baraccone, quantomeno con distacco. Promise infatti di esaminare lo scritto per un’eventuale pubblicazione sulla rivista Lacerba o persino in volume da Vallecchi, per restituirglielo il giorno successivo; e così fece, ma solo con un vago incoraggiamento a continuare. Poi ci ripensa, e glielo chiede di nuovo per farlo leggere ad Ardengo Soffici: che molto semplicemente se ne disinteressa al punto da smarrirlo.
Campana non aveva altre copie di quei «prosimetri» che sarebbero diventati, con l’aggiunta di nuove poesie, i Canti orfici. Si disperò, mandò lettere di fuoco, ma non si scoraggiò: riscrisse tutto a memoria e nell’estate del 1914 pagò un tipografo di Marradi, tal Ravagli, per farsi stampare uno smilzo libretto che cercò poi senza gran successo di vendere in giro ai conoscenti. I Canti orfici vennero infine pubblicati da Vallecchi nel 1928 insieme ad altri testi successivi, ma quando ormai il poeta era rinchiuso in manicomio: e la prima versione fu ritrovata solo nel 1971, fra le carte di Soffici. Non è esattamente una storia a lieto fine, questa, almeno dal punto di vista esistenziale dell’autore e non da quello più generale della letteratura, ma forse è davvero la più sfortunata.
Ad altri andò molto meglio. Italo Svevo prima di agguantare la gloria grazie a Joyce e Montale, pubblicò a pagamento Una vita (1892) e Senilità (1898) presso l’editore-tipografo triestino Ettore Vram (le poche copie rimaste raggiungono cifre considerevoli sul mercato antiquario, come del resto i Canti orfici e ancor più l’inarrivabile Porto sepolto) ma dovette aprire il portafogli anche per La coscienza di Zeno, (nel 1923) destinata a Cappelli, editore che non disdegnava il contributo dell’autore. Va detto che Ettore Schmitz era un facoltoso industriale, e la tentazione di accollargli il rischio d’impresa doveva essere irresistibile. Anche Proust era molto benestante: negli stessi anni volle pagare l’editore Grasset per il primo volume della sua Récherche, dopo che altri glielo avevano respinto («Mi augurerei che Grasset pubblicasse, a mie spese, pagando io l’edizione e la pubblicità, un’opera importante», scrisse a un’amica). Aveva fatto analoga proposta anche alla Nrf, la prestigiosa rivista che sarebbe poi diventata la casa editrice Gallimard, ma era stata declinata con imbarazzo e fastidio perché considerata indecente.
A Roma, Alberto Moravia, pagò invece un poco malvolentieri, per Gli Indifferenti, l’editore Alpes, una sigla allora importante (presidente era Arnaldo Mussolini, fratello di Benito) capace di ottime curatele e splendide copertine, seppure in costanti difficoltà economiche; sborsò, nel 1929, 1500 lire, un discreta sommetta. Non era un comportamento del tutto abituale, raccontò poi lo scrittore, ma quella volta la sua fama di giovane ricco fece sì che l’editore non riuscisse a resistere alla tentazione di spillargli un po’ di denaro. Se il tipografo presenta un conto magari ragionevole, l’editore a pagamento tendenzialmente si allarga. Cambia l’odore dei soldi. E nonostante queste grandi eccezioni, il principio generale, a distanza di tanti anni, vale anche oggi.
C’è un’industria che vende un’illusione (il tipografo da solo non ce la può fare), quella di essere entrati per davvero nel mondo degli autori letti e magari recensiti, e per far questo propone contratti, inventa premi, fino a ieri diffondeva pubblicazioni dove venivano recensiti gli autori interni a una certa sigla, intervistati, sperticatamente lodati (è capitato a chi scrive di leggere su uno di questi fogli, molto tempo fa, una lunga intervista a un poeta sconosciuto che veniva definito autorevole candidato al Nobel); ora si è attrezzata anche con web-tv che svolgono compiti analoghi ma forse con maggiore efficacia. Il risultato è sempre lo stesso: si pubblicano libri che non vanno in nessun luogo, salvo uno scatolone consegnato all’autore, e sono davvero tanti.
Su 85.129 titoli stampati in Italia nel 2023, quelli generalmente a pagamento sono 12 mila. Ma va pur detto che la vanity press o, come la chiamava Umberto Eco l’editoria di quarta dimensione (in una celebre inchiesta pubblicata sull’Espresso col titolo L’industria del genio italico) ha una sua ragion d’essere, soddisfa un bisogno in fondo legittimo, quello di vedere il proprio nome su una copertina (anche se vende un sogno e molto spesso un inganno, applicando nei casi peggiori la nota regola Vanna Marchi: che qui per delicatezza non citeremo). La mette in scena lo stesso Eco nel Pendolo di Foucault – dove gli autopubblicati esoterici, i «diabolici» prendono in qualche modo il potere -; la evoca, poniamo, la grandissima Muriel Spark in A mille miglia da Kensington.
Parecchi anni fa Marcello Baraghini, il geniale inventore dei libri a mille lire, pubblicò un reportage sul tema, Editori a perdere (di Miriam Bendia) dedicato a un mondo di piccole e grandi furbizie (e disonestà) non troppo cambiato nel tempo nonostante la rivoluzione tecnologica, che pure ha messo a disposizione degli aspiranti scrittori strumenti formidabili, ed in buona parte lo ha sostituito. La possibilità di autopubblicarsi sul web ha creato un percorso alternativo di grande successo. Intanto non costa nulla o quasi (ma sconta in parte almeno il fatto che i libri elettronici in generale non si siano imposti sul mercato, insomma vivacchino); e in secondo luogo dà comunque una visibilità più interessante, in vista di futuri approdi. Gli editor, che ignorano abitualmente gli autopubblicati su carta, setacciano il web anche più di quanto lo ammettano, alla ricerca di qualche idea promettente, visto che non è difficile verificare il successo o quantomeno la buona accoglienza di un certo testo fra gli utenti.
Ci sono piattaforme, come quelle di fan-fiction, che possono diventare rampe di lancio, come accadde per l’americana Anna Todd che da Whatpadd conquistò nel 2014 il mercato (dalla carta al film) con la serie After, effimeri best seller un po’ sciocchini: e come è successo per la nostra Erin Doom, che ha cominciato anche lei allo stesso modo per diventare un’autorità del genere romance. Ma in questo campo, corretto con una bella dose di sesso, il caso davvero straordinario era stato però, nel 2011, quello di Cinquanta sfumature di grigio, successo strepitoso di E. L. James (pseudonimo di Erika Leonard) nato anch’esso su una fan fiction di self-publishinge diventato una trilogia popolarissima su carta e al cinema. Sarà però curioso notare come tutti questi titoli non siano nati su quella che è ormai considerata l’arca santa del self-publishing, Amazon, naturalmente: che attraverso il programma Kindle Direct Publishing intercetta ormai il flusso maggiore.
Qui l’autopubblicato deve fare (quasi) tutto da sé, salvo qualche consiglio di impaginazione. Nel caso gli vada bene può anche incassare un po’ di spiccioli. Un editore normale, che però lavora e investe sul libro, paga infatti all’autore una percentuale generalmente fra il 7 e il 12 per cento, con punte più alte per i bestseller; Amazon riconosce diritti, a seconda del prezzo di vendita e del tipo di royalty scelto, tra il 35 e il 70 per cento. Inoltre col sistema del print-on-demand mette a disposizione la copia cartacea, stampata ogni volta che un lettore la acquista sul sito. Un affarone? Per il generale Vannacci lo è stato sicuramente, visto che Il mondo al contrario pare sia arrivato a superare le trecentomila copie, con un contratto che gli riconosceva il 60 per cento. Ma Vannacci ha beneficiato di un lancio straordinario grazie al fatto di essere un personaggio pubblico.
Era un perfetto candidato allo scandalo politico e al caso editoriale. Alla fine, la sua dichiarazione dei redditi, pubblicata sul sito del Parlamento europeo, dice che tra il 2023 e 2024 i diritti d’autore sono arrivati al milione di euro, e c’è di che far sognare milioni di scrittori o aspiranti tali rimasti a bocca asciutta, soli e senza strumenti, proprio come i loro colleghi pubblicati col vecchio e sempre vitale sistema a pagamento. Dalla quarta dimensione, evadere è terribilmente difficile.