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 2025  aprile 25 Venerdì calendario

L’abitudine di dire «Ciao caro!»

Non so se è un’abitudine che sta prendendo piede solo a Roma, ma mi capita sempre più spesso che qualcuno – a me sconosciuto, di solito erogatore di un servizio – mi si rivolga con un confidenziale «caro». «Ciao caro!», mi dice il tassista accogliendomi nella sua auto; «Ecco caro», sorride il barista mentre mi serve il caffè; «Prego, caro», risponde l’impiegato dell’ufficio pubblico al mio «Grazie».
Si tratta di solito di persone giovani e carine, chiaramente motivate da intenti di gentilezza. Solo che la esprimono impropriamente. Trovando forse obsoleto e aulico l’aggettivo «egregio», formale il sostantivo «signore», e burocratico un tradizionale «dottore», non sanno come altro rivolgersi a una persona più anziana che non conoscono, ma nei cui confronti vogliono mostrare rispetto, se non con un familiare «caro».
«Caro», però, si dice alle persone care. E noi non ci conosciamo abbastanza per esserci cari. Oppure «caro» lo dice il boss in azienda a un giovane alle prime armi, in un’esibizione di sgradevole paternalismo. Ma qui non siamo né in famiglia né al lavoro. Il che rende il «caro» anche più sgradevole.
Io non dico nulla. Non protesto, ovviamente. Capisco le buone intenzioni: l’informalità è il mantra della nostra epoca, bando alle regole del galateo e alle deferenze. E così mi tengo il «caro». Ma dentro di me, ogni volta, mi meraviglio e borbotto: possibile che siano andate così smarrite le regole basilari di una buona conversazione, il lessico della vita di ogni giorno?
Forse esagero. Forse la mia reazione è motivata da un involontario anglismo. Quando vivevo a Londra, e sentivo l’espressione «Oh dear» (che alla lettera significa «Oh caro»), voleva dire che era successo qualcosa di brutto o di sgradevole: è il modo classico con cui l’understatement britannico reagisce a un piccolo fastidio, esprime disappunto o solidarizza con l’interlocutore per qualche guaio che gli è capitato. Tipo: «Hai perso il telefono? Oh dear!».
Oppure provo fastidio perché è l’ennesima forzatura introdotta per ridurre sempre più la distanza tra le persone: in fin dei conti è solo un altro modo di restringere quel diametro di un metro quadrato di privacy che dovrebbe essere garantito a ciascuno di noi, una sfera di privatezza personale inviolabile, nella quale si entra solo per invito.
Oppure ancora quel «caro» mi scoccia perché giunge alla fine di una serie di micro-comportamenti poco rispettosi, tipo rispondere al telefono mentre stanno parlando con te, o infarcire l’eloquio con l’interiezione che in italiano è l’equivalente del «fuck» americano, onnipresente ormai nei dialoghi a stelle e strisce e diligentemente imitato da noi.
Voi direte: ma che ti importa, non sono queste le cose importanti della vita, vuoi farti il sangue amaro per un «caro»? E io vi do ragione. Anch’io so che esagero, che la mia è una sensibilità eccessiva. Ma, sapete, a una certa età si diventa permalosi. Ciao cari!