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 2025  aprile 25 Venerdì calendario

Sandro Ferri, l’«inventore» di Elena Ferrante: «Sono nato ricco, poi anni duri. Nell’editoria ho adottato la tecnica della guerriglia»

La storia di «e/o» inizia come non ti aspetti ben prima della sua nascita effettiva, datata 1979. La casa editrice de L’amica geniale di Elena Ferrante viene concepita in un pomeriggio di lacrimogeni e sanpietrini, urla e spari, quando un giovane libraio trova il coraggio di prendere per mano la sua futura compagna di vita e di editoria e con lei correre via dall’Isola Tiberina e dagli Anni di Piombo. Lui, Sandro Ferri, studia l’economia socialista e le vicende operaie sovietiche. Lei, Sandra Ozzola, torinese di origine, è appassionata di letteratura russa. È il 12 maggio del 1977. Poche ore dopo, a Ponte Garibaldi, dove la polizia sta ancora caricando, cade a terra uccisa da un proiettile Giorgiana Masi, una studentessa di 19 anni. Non si saprà mai chi esplose quel colpo.
Ferri, oltre a un amore e tanta letteratura, quella fuga per mano cos’altro racconta?
«Capimmo in quell’istante che il nostro mondo stava diventando soffocante, doveva esserci qualcosa di più bello, alto e giusto».
Intuizione e velocità d’esecuzione?
«La velocità è cruciale, chiunque di noi poteva essere al posto di Giorgiana. Da editore, poi, ho adottato la tattica della guerriglia».
Spieghi.
«Con i grandi gruppi e i centri di potere non si va mai allo scontro diretto. Bisogna essere agili, esplorare mondi, arrivare prima ai manoscritti, sorprendere, saltar fuori all’improvviso».
Non vi hanno visto arrivare?
«I primi anni sono stati duri. Io sono nato ricco ma poi la mia famiglia ha subito un rovescio e non avevamo più risorse sufficienti per la casa editrice che infatti era detta “la stanza editrice”. La mia fortuna è stata Sandra, una donna colta e di talento. Lei ha capito il fenomeno Ferrante, la qualità degli autori, le potenzialità dell’Est».

Vostra figlia Eva guida la sede londinese.
«Lei è il futuro di e/o, ne incarna lo spirito e la vocazione internazionale. Siamo anche a New York. Eva ha studiato da psicanalista, poi ha scelto l’azienda».
Del resto, Eva è cresciuta tra i libri come lei racconta nel suo memoir «L’editore presuntuoso».
«Eva ci ha confessato che da piccola si sentiva in competizione con gli autori perché noi li trattavamo “come bambini”, cioè come lei. Con Sandra abbiamo poi ripensato a un episodio esilarante: siamo in campagna e sentiamo degli strilli arrivare dalla piscina. Erano quelli di mia figlia che all’epoca aveva 4 o 5 anni e di Edna O’Brien, la scrittrice irlandese. Bisticciavano convintamente per chi avesse diritto a usare la cuffia e chi il salvagente».
Anche Christa Wolf ha frequentato casa vostra?
«Sì, però a lei Eva serviva il tè. L’autrice di Cassandra, forse la più grande scrittrice tedesca del ‘900, è stata voce di riferimento sui temi del potere. Parlava dall’interno dell’ impero dell’Est, sollevando interrogativi anche a Ovest. Più che mai attuale».
Dunque voi «adottate» i vostri autori?
«Sì, Eva ha ragione. Gli autori entrano in famiglia e in casa. La casa editrice».
Cosa vi conquista di loro?
«Molto più della scrittura, uno stile di vita, i luoghi. Penso a Bohumil Hrabal, alla vecchia Praga, alle birrerie. O al mare, alla musica, al melting pot della Marsiglia di da Jean-Claude Izzo. Adoriamo le autrici francesi, come Valérie Perrin, con i bestseller Tatà e Cambiare l’acqua ai fiori. O Muriel Barbery, con L’eleganza del riccio. E ancora Alexandra Lapierre e Anne Berest: la grazia, il brio nella conversazione, la campagna francese. Gli africani: energia, profondità, eco del dolore. E poi la lucida follia da inviate nel futuro delle giapponesi Murata Sayaka e Mieko Kawakami».
Come altri vostri libri anche «Cambiare l’acqua ai fiori» diventa un film?
«Sì, per la regia di Jean-Pierre Jeunet. L’Italia è coinvolta nella produzione con Palomar».
Ferri lei è veloce nella guerriglia ma non può sfuggire alla domanda sull’identità di Elena Ferrante.
«Prego».
Con questo pseudonimo sono state vendute 20 milioni di copie nel mondo. Da anni si parla di un lavoro a più mani nel quale è coinvolta una vostra amica storica, e forse geniale, Anita Raja, stimata traduttrice.
«Nulla di dimostrato».
Come si mantiene un segreto?
«La riservatezza è prassi se hai lavorato all’Est».
Quando il New York Times ha proclamato «L’amica geniale» il miglior libro del secolo, riconoscendo all’editoria italiana un successo planetario, non vi è venuta voglia di festeggiare in pubblico?
«Altroché. Ma l’autrice non vorrà mai comparire. Pensi che Elena è stata invitata dalla regina Camilla al gruppo di lettura a Buckingham Palace. Che peccato declinare. Ed era già capitato con gli Obama che la volevano alla cena di addio alla Casa Bianca».
Lei era marxista-leninista?
«E pure maoista!».
Guardi che lo scrivo.
«Ci mancherebbe. Sono tra quelli salvati dalle femministe. Furono le donne ad aprirci gli occhi e a demolire Lotta Continua».
E come?
«A colpi di: “Altro che compagni, siete uguali agli altri, solo potere e narcisismo”. Era vero, siamo implosi».
Ha fatto pace con il capitalismo?
«Il capitalismo funziona, ma va governato. Il socialismo ha fallito, ma può rinascere. Solidarietà e altruismo restano valori irrinunciabili».
Cosa le ha lasciato la Vecchia Talpa, la libreria dal nome assai marxista di piazza dei principi Massimi?
«La fierezza del libraio. Ma non ho brillato a far di conto ed è finita male. Ospitammo la prima scuola di fumetto e fummo i primi a vendere i manifesti di grafica o di artisti come Escher, che io scovavo viaggiando».
Quindi quel poster onnipresente con la scala di Escher ce l’ha venduto lei?
«Corretto».
Perché pubblicate solo letteratura?
«La letteratura è politica, ma non dà istruzioni. Suscita emozioni e riflessioni; arriva alle coscienze senza preoccuparsi di conquistare potere».
Lei è stato critico nei confronti della grande editoria.
«Ho rivendicato il ruolo dell’editore-soggetto, cioè di colui che si prende la responsabilità di pubblicare solo ciò che risponde alla propria personalità. Mentre a dettare la linea sono spesso la finanza e il marketing».
Un lusso il suo?
«Un impegno. Qualche anno fa ho sostenuto un piacevole confronto pubblico con Gian Arturo Ferrari, già direttore della Mondadori e autore della Storia confidenziale dell’editoria italiana. Più che di indipendenza lui preferisce parlare di autonomia e quest’ultima, sostiene, poteva essere difesa anche in una Segrate controllata, allora, da un capo di governo. Credo sia vero».
Un editore che vi piace?
«Veneriamo Gallimard. Qualità, eleganza e lealtà».
E in Italia?
«Grande stima per Laterza, Sellerio e Feltrinelli».
Si aspetta una sfida tra Feltrinelli e Mondadori per Adelphi?
Più che sul controllo di Adelphi, tra Feltrinelli e Mondadori potrebbe esserci una sfida sulle librerie. Feltrinelli sta portando avanti un progetto interessante per dar spazio agli editori indipendenti.
Qual è il problema delle librerie?
Il rischio forte è di avere catene che tengono sempre meno titoli, solo bestseller o libri dell’editore proprietario come già si intravede negli Stati Uniti.
Si rischia un’era Trump anche nei libri?
Pluralismo e bibliodiversità sono necessari. I 100 libri più venduti in una settimana rappresentano solo il 7% della totalità delle copie vendute in quella settimana. Vuol dire che su 100 persone che entrano in libreria, solo 7 acquisteranno i bestseller. Il mondo del libro non si può reggere solo su questi ultimi.
Lei si schierò contro il trasferimento del Salone da Torino a Milano?
«Certo, sarebbe stata la fine del Salone. Ho letto un’intervista  a Luca Formenton, che apprezzo: il suo racconto dell’editoria milanese però ha rafforzato in me la convinzione che solo a Roma avrei potuto far crescere e/o. Milano è il luogo del potere e manca un po’ di libertà».
Che corsa da quel 12 maggio del ‘77... Come prosegue?
«L’ultima sorpresa è l’apertura di due ristoranti letterari, uno a Roma e l’altro in Maremma: si chiamano “Gli Esploratori”. La prossima, è un luogo d’incontro e confronto sulla salute mentale, dove salvarsi dal burn-out».
Ci sarà mai un ultimo libro?
«L’ultimo libro potrebbe essere un manuale di guerra scritto a quattro mani da Trump e Putin...».